L'Italia era entrata in guerra da quasi dieci mesi, e già si erano verificati i primi rovesci sul fronte dell'Africa Settentrionale e lungo la frontiera greco-albanese, quando il 20 marzo 1941 il 97° battaglione, mobilitato il 20 febbraio per impiego operativo, ricevette l’ordine di trasferimento per Fiume; tre giorni dopo, ricevuta la fiamma di combattimento nella ricorrenza della fondazione dei Fasci di combattimento, il reparto si apprestò a lasciare Siena per il trasferimento in linea.
Alla guida della Legione intanto si era appena insediato il nuovo comandante Seniore Ferruccio Ciliberti, in sostituzione del Primo Seniore Carlo Federigo Degli Oddi, passato al comando del reparto in partenza per il fronte. Alla figura del comandante Degli Oddi è legato un particolare aneddoto che coniuga idealmente l'asta della bandiera del 97° battaglione d'assalto in Jugoslavia dal 1941 al 1943 e quello della I brigata d'assalto SS italiana impegnata sul fronte di Nettuno nel 1944, il cui III battaglione era al comando dello stesso Degli Oddi. Al momento di ricevere la fiamma di combattimento l'ufficiale collocò sulla parte finale dell'asta un pezzo di stoffa rossa proveniente da uno stendardo dell'epoca della Repubblica di Siena di proprietà della sua famiglia (1).
La fiamma, recante il motto "A non piegar l'insegna Siena insegna" venne consegnata al reparto il 23 marzo 1941, alla vigilia della partenza per il fronte giulio, nel corso di una breve ed austera cerimonia a Siena (2). Indiretta conferma che non si fosse trattato di un particolare artificiosamente leggendario, teso ad imprimere uno spirito di ammirazione e di meraviglia, sia la considerazione che esso è ricordato nelle memorie del conte Pio Filippani Ronconi, ufficiale sul fronte di Nettuno nel gennaio 1944, comandante di plotone nel battaglione di Degli Oddi (3).
Lasciata Siena il 28 marzo 1941, il 97° battaglione d'assalto e la 97.a compagnia mitraglieri vennero trasferiti a mezzo ferrovia nell'area di Fiume, accantonandosi nei locali del mobilificio Berger di Mattuglie il primo ed in baracche presso l’abitato di Giordani la seconda ed unirsi quindi all'89° battaglione camicie nere di Volterra, guidato dal Seniore Federigo Innocenti. Con il battaglione Etrusco, già accantonato presso la caserma “Savoia” di Fiume fin dalla prima settimana di marzo, costituirono la LXXXIX legione divisionale CC.NN., al comando del Console Libano Olivieri e formalmente inquadrata nella divisione di fanteria Bergamo; l'unità, incorporata nel V Corpo d'Armata e forte di circa milletrecento effettivi, si trovava schierata nella Venezia Giulia, in posizione di vigilanza e controllo della frontiera orientale, lungo la linea Fiume - Bresa - S. Rocco di Clana (4).
I 766 mobilitati tra graduati e truppa, 29 sottufficiali e 29 ufficiali compresi nei due reparti provenienti dalla 97.a legione appartene-vano alle classi di leva comprese tra quella del 1901 (due militi) e quella del 1916 (un milite), concentrati principalmente nelle classi 1914 (103 mobilitati), 1912 (91 mobilitati) e quella 1909 (89 mobili-tati), che si univano ai 14 ufficiali, 21 sottufficiali e 325 graduati e truppa dell’89° Battaglione; sia per quanto concerne la provenienza, pressoché uniforme, dal territorio provinciale, sia per la predominanza degli appartenenti alle classi sociali meno elevate, le caratteristiche dei legionari mobilitati non si discostarono da quelle del precedente impegno in Africa Orientale: anche per i reparti impegnati in Jugoslavia la percentuale di coloni ed operai superò l'80%, con una ridotta presenza di impiegati, appena il 10% ed ancor più marginale di studenti, inferiore al 3%. Tra le fila degli appartenenti alla compagnia mitraglieri era inve-ce una predominanza di militi provenienti dall'area della Valdichia-na, che aveva mobilitato 97 legionari su 167, con 34 dei quali provenienti dalla sola città di Montepulciano, mentre sui 494 mobilitati nelle compagnie fucilieri del battaglione spiccavano i 42 militi provenienti da Abbadia San Salvatore, tutti inquadrati nella 3.a compagnia; 112 legionari, principalmente quelli delle classi 1909 e 1910, tornavano ad essere mobilitati con il 97° battaglione a distanza di quattro anni dalle operazioni di polizia coloniale in Africa Orientale.
I primi giorni di aprile, trascorsi in un clima rigido ed inclemente, videro infatti i reparti schierati in attesa lungo la linea di confine, impegnati nei lavori per approntare e migliorare le opere difensive e serrare le posizioni lungo la linea tra Castua e Mattuglie ed ansiosi di cimentarsi in combattimento dopo l'attesa di dieci mesi trascorsi ad assistere agli echi delle battaglie in Libia ed in Grecia.(5).
Il 9 aprile 1941 il battaglione ricevette il proprio battesimo del fuoco. Una pattuglia di 12 uomini del plotone esploratori del 97° battaglione, al comando del capo manipolo Licurgo Bartalucci, ricevuto l'ordine di effettuare puntate esplorative oltre il confine, si inoltrava in territorio nemico dopo essersi aperto un varco tra i reticolati e si dirigeva verso l'abitato di Bubesj (6). Nello scontro a fuoco che si era acceso con le guardie di frontiera jugoslave cadeva infatti la camicia nera Ettore Neri di Siena, classe 1912, decorato con la Medaglia di bronzo al valore militare alla memoria; a conferma dello spirito con cui era atteso il battesimo di fuoco del battaglione, la prima operazione bellica, che aveva rappresentato un semplice scontro tra pattuglie contrapposte, venne salutata con toni trionfalistici, non soltanto dalla propoganda della cronaca locale, ma persino nella relazione ufficiale del comando di legione alla Prefettura (7).
Il giorno 11 giunse finalmente ai reparti del V Corpo d'Armata l'ordine di avanzare; preceduto da una prima ondata di assalto, della quale faceva parte la 97.a compagnia mitraglieri, il battaglione, al completo delle proprie compagnie, varcò il confine a Muini con l'ordine di riunirsi a Giordani con il comando della 89.a Legione per occupare la linea di confine rappresentata dagli abitati di Costanje, Berzaki, Stefanj, Marinici, Svet Matej, e con obiettivo finale il paese di Castua, situato sulle alture che dominavano Fiume (8). Il movimento, inizialmente ostacolato dal tiro dei centri di fuoco nemici che operavano da una favorevole posizione sul costone prospiciente la costa adriatica, travolse ben presto la sottile linea difensiva rappresentata dalle guardie di frontiera jugoslave, che abbandonarono le posizioni ripiegando verso l'interno: alle ore 22 le prime colonne del battaglione entravano nel paese (9).
Il giorno 12 i reparti erano ancora in azione, impegnati ad avanzare sull'itinerario Svetj Matej - Susak - Val Braga – Vitosevo, raggiunta in tarda serata; alle prime ore dell'alba del mattino successivo il battaglione al completo partiva all'assalto da Pobri, frazione di Abbazia, occupando Volosca e dopo un rapido aggira-mento delle ultime resistenze nemiche, penetrava nell'abitato di Sussak e nei giorni auccessivi effettuava puntate fino a venti chilometri dalla costa di Buccari, verso Skrilievo e Jelovka . Con un ultimo sbalzo il giorno 15 prendeva posizione nella zona di Giurici, per una sosta in attesa di riorganizzare i reparti, mentre iniziavano le trattative di armistizio che sarebbe stato siglato due giorni dopo; il 16 aprile il comando del V corpo d'armata ordinava alle colonne della Bergamo, che aveva appena occupato l'abitato di Zuta Lovka, di cessare l'inseguimento.
La campagna jugoslava rappresentò per la II Armata uno sforzo poco impegnativo, concluso in meno di due settimane; l'esercito jugoslavo, travolto dalle colonne tedesche penetrate sia dalla frontiera settentrionale che dalla Romania, si sciolse quasi istantaneamente, trasformando anche l'avanzata dei reparti italiani lungo la costa adriatica in una rapida rincorsa per tentare di aggianciare l'avversario in ritirata.
Nel corso della rapida campagna la M.V.S.N. impegnò in totale 41 battaglioni di camicie nere, sedici dei quali inquadrati direttamente nelle unità divisionali dell'esercito e dieci battaglioni autonomi alle dipendenze del comando d'Armata lungo il fronte giulio, e quindici battaglioni inquadrati in due raggruppamenti autonomi lungo quello albanese.
Il territorio jugoslavo sarebbe stato smembrato, con l'annessione diretta di alcune regioni alla Germania, all'Italia, all'Ungheria e alla Bulgaria e la creazione di entità statali direttamente sottoposti all'influenza delle potenze dell'Asse; oltre alla regione di Lubiana e dei territori limitrofi al vecchio confine, l'Italia ottenne il Montenegro ed il Kossovo, che vennero uniti al teritorio albanese.
La Croazia divenne un'entità formalmente indipendente, sotto il governo filo-tedesco presieduto da Ante Pavelic, capo del movimento ustasha e che per una curiosa combinazione, aveva trascorso parte degli anni trenta in esilio proprio a Siena, da dove, con la protezione ed il sostegno del regime fascista, aveva mantenuto la guida della propria organizzazione; il figlio Velimir aveva persino militato per alcuni anni nelle fila della 259.a legione avanguardisti "Rino Daus", partecipando ai corsi ed alle esercitazioni premilitari condotte dagli ufficiali della 97.a Legione. Il territorio croato venne suddiviso in due aree di influenza e di controllo militare: la regione dalmata e della Erzegovina sotto il controllo italiano, quella bosniaca e della Croazia più interna sotto il controllo tedesco.
Ai reparti italiani della II Armata venne quindi affidato il compito di procedere al dispiegamento lungo le aree di competenza di Dalmazia ed Erzegovina; il 26 aprile, mentre venivano ultimati i dettagli per delimitare le aree di controllo militare del territorio occupato, dal comando d'Armata venne impartito l'ordine di movimento alla divisione Bergamo di prendere posizione nell'area di Spalato, Livno, Imotski e Makarska.
A causa del clima rigidissimo e della neve, il battaglione potè iniziare il movimento solo dopo alcuni giorni, giungendo a Vzovine il 7 maggio, in attesa di riprendere il trasferimento a mezzo ferrovia in direzione di Spalato. Proprio nell'abitato di Vzovine, il 9 maggio, durante la sosta per il riordino dei reparti, quattro appartenenti al 97° battaglione e uno alla compagnia mitraglieri furono responsabili di una aggressione ad un sottufficiale della Bergamo che era accantonata nel paese ; i cinque militi, due dei quali veterani dei cicli operativi in Africa Orientale nel triennio 1937-1939, vennero deferiti al Tribunale Militare e trasferiti il 27 maggio presso il carcere militare di Fiume. Con sentenza emessa il 1 luglio 1941, il Tribunale Militare della II Armata ne condannò due alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione e gli altri alla pena di tre anni di reclusione per "insubordinazione e vie di fatto contro un superiore" e condotti presso il carcere militare di Gaeta; tutti i condannati vennero cancellati dai ruoli della M.V.S.N. il 9 maggio 1942.
L'ultima parte del trasferimento venne completata nella seconda metà di maggio; il giorno 11 i reparti lasciavano Spalato per raggiungere la zona di Sinj, circa 30 chilometri nell'interno, destinazione del 97° battaglione e quella di Zrnovnica, posta sulle alture a ridotto della costa, dove prendeva posizione la compagnia mitraglieri in appoggio all'89° battaglione camicie nere, ultimando lo spiegamento il 27 maggio.
Appare rilevante l’approfondimento di un aspetto che caratterizzò lo spirito delle camicie nere durante i primi mesi dell'occupazione italiana dei territori della ex-jugoslavia, ed in particolare modo le aree della Dalmazia: le operazioni contro il Regno jugoslavo ed ancor più l'occupazione delle aree lungo la costa adriatica vennero connotate dalla propaganda italiana come continuazione ideale della lotta per la redenzione di territori italiani finalmente liberati dal giogo serbo. Nell'animo delle camicie nere e più in generale dei reparti italiani impiegati, si proiettava una meccanica continuità ideale con l'epopea della Grande Guerra e il mito dell'irredentismo (10).
Il mito della redenzione dalmata accompagnò i primi mesi dell'occupazione, stimolato e alimentato dal negativo giudizio nei confronti dei serbi, che la propaganda aveva trattaggiato con le peggiori connotazioni. Nel corso dei decenni precedenti il linguaggio politico e la retorica nazionalista si erano espressi con alcuni stereotipi che erano stati profondamente interiorizzati da tutti gli strati della popolazione; la missione storica della latinità in Dalmazia era permeata di mentalità razzista, principale supporto ideologico come nelle imprese coloniali e faceva parte del patrimonio culturale con il quale i militari italiani avevano affrontato la guerra in Jugoslavia. In un certo senso quindi echeggiava persino quell'immagine, che era stata nel corso propria della conquista dell'Etiopia, tesa a presentare il soldato italiano come portatore di civiltà e di redenzione dalla barbarie (11).
A Siena intanto il 16 giugno, su iniziativa delle donne fasciste del gruppo rionale Alessandro Mini, al quale appartenevano molti militi della compagnia mitraglieri, veniva celebrata presso il santuario cateriniano di Fontebranda una cerimonia per la benedizione della fiamma di combattimento della compagnia mitraglieri; dopo essere stata consacrata, la fiamma venne offerta al comandante per mezzo di alcuni militi che si trovavano in città per una licenza; la figura di Santa Caterina aveva accompagnato anche la partenza del battaglione nel marzo precedente, quando ai militi in procinto di raggiungere il fronte giulio la federazione dei Fasci e l'O.N.D. provinciale avevano donato un braccialetto con una medaglia riproducente l'effige della patrona d'Italia.
Le settimane iniziali di occupazione, scandite da una incruenta attività di presidio e di ricognizione sul territorio, confermarono nei reparti l'immagine proposta dalla propaganda ed alimentarono l'illusione di operare in una regione finalmente ricongiunta all'Italia, pacificata e bisognosa di una presenza apprezzata e necessaria; lo scenario mutò rapidamente all'inizio dell'estate, con i primi segnali di ciò che avrebbe rappresentato negli anni successivi l'occupazione dei territori della ex-Jugoslavia. Il neonato stato croato, retto dal movimento filonazista di Pavelic, stava lentamente e faticosamente imprimendo la propria pre-senza nei territori sottoposti al suo governo; già nel giugno 1941 tuttavia, nel rapporto redatto dal quartier generale italiano sulla situazione politica ed economica della NDH (Nezavisna Drzava Hrvastska), come era ufficialmente denominata la nazione croata, comparivano i primi accenni al comportamento tenuti dagli ustasha nei confronti della popolazione di etnia serba.
La debolezza strutturale dello stato croato aveva di fatto reso necessario il ricorrere all'organizzazione di Pavelic, meglio organizzata ed attrezzata dell'esercito, per irrobustire l'apparato amministrativo e quello relativo all'ordine pubblico; evidenziando gli abusi e le vessazioni che venivano perpetrati dai croati, la relazione paventava che la reazione, limitata al momento ad una forma di ostilità repressa e malcelata disapprovazione, potesse presentarsi in breve tempo in forme più decise di resistenza.
Fin dall'estate del 1941 i reparti della II Armata si trovarono a confrontarsi con una situazione etnica particolarmente complicata, determinata dalla presenza, quasi sempre conflittuale, di differenti etnie all'interno del territorio di competenza: croati, cattolici, ortodossi e musulmani, serbi ed ebrei, tra i quali gli attriti irruppero subito violentemente. A questa situazione caotica, per la quale le truppe italiane non erano preparate, il governo croato seppe rispondere solo con l'acuirsi della repressione da parte delle milizie ustasha, che sfociò quasi immediatamente in una vera e propria pulizia etnica ed in una strategia di sterminio della popolazione serba, denunciata dai primi rapporti dalla Dalmazia al Comando Generale della Milizia che non lasciavano spazio ad interpretazioni (12).
Il movimento di resistenza nacque proprio in un continuo e contradditorio incrocio di istanze e rivendicazioni di carattere etnico, politico, sociale ed ideologico, condotte su di una sedimentazione conflittuale secolare. Al momento dell'occupazione militare tedesca ed italiana, iniziarono a muoversi dinamiche del tutto indipendenti, ognuna delle quali generata da un differente soggetto che, perseguendo il proprio interesse e le proprie finalità, finirono per determinare un conflitto frammentato in lotta di liberazione, vera e propria guerra civile, scontro etnico e cieca repressione degli occupanti.
Di fronte alla complessità dell'incerto panorama generato con la frantumazione della ex Jugoslavia, la risposta politica data dal comando italiano fu altrettando incerta: se gli ustasha erano alleati ufficiali delle nazioni occupanti, si trovavano in contrasto aperto con il movimento nazionalista serbo dei cetnici, il quale, opponendosi sia all'occupazione tedesca ed italiana, furono anzitutto impegnati a contrastare i partigiani comunisti, trovando in questa prospettiva una forte convergenza con gli italiani. In questo intreccio di dinamiche, emerse infine il ruolo egemonico del movimento comunista di Josip Broz Tito, capace in pochissimo tempo di coniugare l'istanza delle rivendicazioni sociali con quella della lotta di liberazione e che trovò ulteriore capacità di attrarre adesione e partecipazione nella lotta contro l'Asse a seguito dell'attacco contro l'Unione Sovietica nel giugno 1941.
Attingendo ad una sedimentazione razziale che si era formata agli anni inizi degli anni venti e successivamente maturata con l'affermazione del fascismo nei confronti delle popolazioni slovene e croata di Istria e Dalmazia, le truppe di occupazione si confrontarono con la complessità propria dei territori croati e dalmati senza direttive politiche di qualche utilità, che permettessero cioè di guadagnare la fiducia delle popolazioni dei territori occupati, le truppe italiane si approcciarono alla frammentata realtà jugoslava con l'unica prospettiva generata dalla propaganda di affermare e difendere la italianità su quei territori. In un tale scenario i reparti furono sostanzialmente spettatori; le compagnie del 97° battaglione e la compagnia mitraglieri per tutte le settimane dei mesi di giugno e luglio rimasero presso i propri accantonamenti di Sinj e Zernovica impegnati in esercitazioni serrate di istruzioni, tiri tattici di compagnia, ginnastica da cam-pagna ed addestramenti.
Il 7 luglio intanto, una comunicazione dattiloscritta dal comando della II Armata, a firma del generale Ambrosio, informava i reparti subordinati che nel corso della notte ignoti avevano tagliato le linee telefo-niche militari presso Karlovac, e che reparti italiani avevano scoperto dell'esplosivo lungo la linea ferroviaria Sussak-Skrljevo, a cinquecentro metri dalla stazione della città. A questo primo segnale di rivolta armata fecero seguito in rapida successione altri episodi di sabotaggio ma soprattutto la rivolta che assunse i connotati di vera e propria insurrezione armata, destinata ad infiammare il Montenegro per alcune settimane.
In Dalmazia nella notte tra il 18 ed il 19 luglio un attentato dinamitardo faceva deragliare un convoglio ferroviario a otto chilometri dalla stazione di Kastel Stari, sobborgo di Spalato, e pochi giorni dopo venivano abbattuti i pali della linea telegrafica tra la città e Zara, nei pressi dell'aereoporto di Divulje. Si trattava di sabotaggi diretti per il momento esclusivamente contro le infrastrutture utilizzate dai comandi italiani, ma il quadro si sarebbe rapidamente aggravato nelle settimane successive.
Appena due giorni dopo, il comando della II Armata trasmetteva un'allarmata relazione ai comandi divisionali sulla situazione nelle regioni dalmate, nella quale veniva evidenziata la minaccia rappresentata da una crescente agitazione di ideologia comunista, sostenuta anche da eventuali elementi nazionalisti dalmati e croati che si opponevano alla presenza italiana nella regione. La relazione, stilata del generale Dalmazzi, imputava il sentimento anti italiano alla propaganda diffusa da agenti al soldo di Gran Bretagna e Unione Sovietica, e si concludeva con le istruzioni impartite ai comandi di operare una costante vigilanza allo scopo di impedire il movimento di elementi pericolosi e sovversivi, di mantenere a disposizione reparti di pronto intervento per contrastare azioni di aperta ribellione e di reprimere con il massimo rigore ogni occasione di agitazione o sedizione.
Negli accantonamenti di Zernovica e Sinj tutti i reparti rimanevano consegnati, pronti ad intervenire in caso di richiesta per ordine pubblico e contestualmente il Comando di Legione ordinava di intensificate ed aumentate le pattuglie di perlustrazione e di vigilanza e di assumere le misure difensive a sbarramento delle principali rotabili. Durante la notte del 21 luglio infine un plotone dell'89° battaglione in servizio di perlustrazione era stato fatto segno a colpi d'arma da fuoco provenienti da una casa dell'abitato di Mravince; grazie all'intervento di altre pattuglie del 4° reggimento artiglieria della divisione Bergamo e dei Carabinieri l’edificio veniva accerchiato e si provvedeva all'arresto delle persone trovate in casa. Le istruzioni del comando, più o meno tempestive che si fossero rivelate, non impedirono che l'attività dei gruppi ribelli subisse un incremento di intensità e di qualità, accompagnando le sperimentate azioni di sabotaggio con agguati ed imboscate, dapprima contro reparti croati isolati, e poi perfino lungo le vie di comunicazione; anche il settore di competenza della divisione Bergamo, delimitato dai capisaldi di Sinj, Makarska, Imotski e della LXXIX Legione, con i presidi di Zrnovica e Vojnic tenuti rispettivamente dall'89° battaglione e dal 97° battaglione, ebbe a subire le prime iniziative dei gruppi partigiani che si erano radunati lungo le dorsali montuose tra Dalmazia ed Erzegovina.
Il 14 agosto 1941 nei pressi del villaggio di Turjaci, lungo la strada tra Trilj e Signj, una pattuglia del 97° battaglione, di supporto ad un reparto croato in ricognizione, si scontrava con un gruppo di ribelli: veniva colpito il capo squadra Rodolfo Nigi di Siena, classe 1905, che sarebbe deceduto il giorno 16 presso l'ospedale da campo n. 134 di Sinj per le ferite riportate (13), ed a cui sarebbe stata assegnata la medaglia d'argento al valore militare. Nello scontro a fuoco venne ucciso un ufficiale croato, oltre a cinque feriti, tra i quali la camicia nera Nello Bianchi di Siena, decorato con la concessione della medaglia di bronzo al valore militare. A testimonianza dell'asprezza degli scontri che si protrassero per alcuni giorni nella zona, il 14 agosto il vice capo squadra Mario Berti otteneva la promozione sul campo per la determinazione con la quale aveva guidato l'assalto del proprio reparto contro il fianco dello schieramento avversario, permettendo la cattura di alcuni ribelli.
Il gruppo partigiano, forte di circa 200 uomini, secondo la relazione dei carabinieri di Zara al Governatore della Dalmazia, si era trasferito nella zona da alcune settimane, proveniente dalla zona costiera; nel corso delle operazioni di rastrellamento sulle alture vicine 42 ribelli furono catturati e subito trasferiti a Spalato per essere fucilati (14). Nei giorni successivi il feretro del capo squadra Nigi, deposto su un carro d'artiglieria e fiancheggiato dalla scorta d'onore del battaglione CC.NN. e da una squadra di ustasha, dopo l'appello fascista venne tumulato nel cimitero di Sinj, all'interno di una cappella privata concessa da una donna di origini italiane là residente, di fronte al battaglione schierato al completo dei reparti (15).
Per tutto il corso dell'estate nel settore occupato dalla divisione Bergamo e dal 97° battaglione le azioni di sabotaggio contro le linee telefoniche e le infrastrutture si protrassero senza sosta; le settimane trascorsero in uno stillicidio di interventi per ripristinare comunicazioni e servizi interrotti da gruppi ribelli che si rifugiavano velocemente sulle alture e nei boschi dell'interno, mentre i reparti si trovarono impegnati in continui servizi di scorta armata alle autocolonne lungo strade divenute pericolose. La necessità di rinforzare i presidi lungo le principali direttrici di collegamento e di creare gruppi mobili di pronto intervento costrinse inoltre ad un riposizionamento delle unità in un ampio triangolo tra l'Erzegovina e la Dalmazia interna. Ai primi di ottobre, mentre il 25° reggimento della Bergamo dislocava le compagnie tra Imotski e Makarska, il 26° reggimento concentrò i propri reparti tra Sinj e Livno, ove prese posizione anche il comando della LXXIX legione con i due battaglioni camicie nere, schierati rispettivamente a Glamoc e Mlinista (16) ed impegnati in continue operazioni di rastrellamento a breve raggio alternate alla necessità di sgombero della neve lungo le direttrici.
Il 12 novembre, nel corso di un’operazione di rastrellamento nella zona del Vjestica Gora condotta dal 97° battaglione, rinforzato da un plotone della compagnia mitraglieri e con il supporto dell’artiglieria della divisione Bergamo, dopo che la colonna della 2.a compagnia, raggiunti gli obiettivi solo a tarda ora, rallentata dal buio e dalle condizioni climatiche proibitive, iniziava la marcia di rientro agli accantonamenti, la camicia nera scelta Dante Bianconi di Sinalunga, classe 1907, precipitava in un pozzo dolinico. I soccorsi, giunti sul posto il mattino successivo, non riuscirono a salvare il milite, la cui salma venne recuperata solo con fatica nel tardo pomeriggio, per essere trasportata all’ospedale 134 di Sinj.
I rastrellamenti, condotti sempre con il supporto di plotoni mortai e di artiglieria divisionali, continuarono per tutto il mese di novembre, pur con risultati poco significativi: due sospetti catturati il 12 novembre, il sequestro di alcune armi a Bracev il 13, quattro sospetti arrestati nell’area del monte Cetina il 22, senza tuttavia entrare in contatto con i gruppi partigiani che si aggiravano nella regione. Il 28 novembre alcuni colpi di fucile vennero sparati all'indirizzo di una colonna in ricognizione, senza tuttavia provocare danni: erano le avvisaglie dei sanguinosi agguati che alcuni giorni dopo avrebbero avuto come oggetto reparti in attività di ricognizione lungo la strada tra Kupres e Livno.
Nel pomeriggio del 3 dicembre una colonna composta da reparti del 26° reggimento fanteria della divisione Bergamo venne attaccata con fucili automatici e bombe a mano nei pressi del villaggio di Blagaj, con alcuni tentativi di aggiramento che vennero inizialmente respinti; alle quattro del pomeriggio, trovandosi in condizioni di inferiorità numerica, lontano dalle proprie basi e in prossimità dell'imbrunire, il comandante del reparto decise di disimpegnarsi per rientrare verso il presidio per non esporre il reparto ad ulteriori perdite. Lungo il percorso di ripiegamento la colonna venne nuovamente attaccata con mitragliatrici e colpi di mortaio; pur riuscendo a respingere ancora una volta l'attacco, il reparto riuscì a rompere il contatto riparando a Kupres solo dopo le ore venti, dovendo subire pesanti perdite, con tre morti, tra cui un ufficiale, sei feriti e ventidue dispersi, di cui un ufficiale.
Dopo appena due giorni una colonna vuota composta di due autocarri e 5 autocarrette partita da Kupres e diretta a Livno scortata da un reparto del 26° reggimento al comando del Centurione Bartalucci del 97° battaglione, mentre si trovava nei pressi del villaggio di Malovan a quindici chilometri circa da Kupres venne fatta oggetto di aggressione da parte dei partigiani; sulla colonna viaggiavano anche alcuni legionari del battaglione che si recavano a Livno per ragioni di servizio. Parte della colonna venne circondata, mentre l'altra, respingendo gli attacchi del nemico che cercava un aggiramento, riuscì a disimpegnarsi, ripiegando verso Sujica al prezzo di altre perdite, tra le quali un caduto, nove prigionieri tra i quali il comandante del reparto di camicie nere Bartalucci e undici feriti, tra i quali erano il capo manipolo Mario Friscelli e le camicie nere Guido Arruffoli di San Quirico d'Orcia e Angelo Vannini di Buonconvento; per il comportamento tenuto durante l'aspro combattimento la camicia nera Gino Mancini di Torrenieri ottenne l'encomio solenne del comando della LXXXIX legione (17).
L'esito della cattura del centurione Bartalucci, rilasciato dai partigiani alcuni mesi dopo, rappresentò un'eccezione nel comporta-mento dei partigiani nei confronti delle camicie nere catturate; i casi nei quali le camicie nere catturate nel corso degli scontri a fuoco o nelle imboscate non venissero fucilate o, peggio, brutalmente seviziate prima di essere uccise, furono particolarmente rari. Verosimilmente perché utile per uno scambio di prigionieri, e probabilmente per essersi verificato nelle prime fasi della guerra partigiana, la vicenda del centurione Bartalucci rappresentò in questo senso un evento eccezionale; ai primi di febbraio del 1942 un dispaccio del comando Carabinieri al comando della II Armata informava infatti che il 6 febbraio i partigiani avevano restituito il capitano Bartalucci e 15 soldati catturati il 5 dicembre presso Malovan.
Anche se una parte della storiografia ha recentemente prodotto la tesi di una differenza di trattamento cui erano destinati i soldati dell'esercito e le camicie nere catturate, è necessario specificare che essa non rappresentò la regola. Numerosi furono i casi di soldati prigionieri o feriti che vennero torturati e seviziati prima che altri reparti potessero portare loro soccorso; si veda a tal proposito le vicende dei feriti del 122° reggimento della divisione Macerata o del 2° reggimento della divisione Re nella seconda metà del 1942. Episodi di un comportamento benevolo nei confronti dei soldati italiani devono piuttosto riferirsi ai casi di diserzione da parte di singoli elementi o gruppi di militari che decisero di unirsi ai gruppi partigiani o che semplicemente abbandonarono i propri reparti; in questo senso il comportamento tenuto dai partigiani fu necessariamente conciliante nei confronti di casi che, dapprima isolati, andarono progressivamente aumentando con il trascorrere dei mesi di operazioni. La differenza di comportamento nei confronti dei prigionieri che provenissero dai reparti di camicie nere o dai carabinieri rispetto ai soldati dell’Esercito, quando essi fossero caduti nelle mani del nemico, rappresentava un elemento certamente noto ai vertici militari, sia per il morale che si diffondeva nei reparti, sia per l’effetto psicologico ch’esso poteva provocare, come riportato nelle relazioni inviate al Comando della M.V.S.N. da parte del Servizio Informativo sulla situazione in Dalmazia del giugno 1942, che evidenziavano un clima di scollamento e di scarso spirito bellico nelle unità dell’Esercito (18).
Per la coscienza dell'opinione pubblica in patria e per gli stessi militari si trattava di un brusco richiamo alla realtà delle cose; appariva evidente che non si trattava più di celebrare la presenza italiana in un territorio finalmente redento; al di là della commozione per la morte di legionari della provincia, veterani della campa-gna in Africa Orientale e molto conosciuti a Siena e nella provincia, non poteva essere ignorato il fatto che nei territori occupati la situazione fosse ben diversa da quella paventata dalla propoganda. Il contenuto di alcune corrispondenze inviate dai militari alla famiglie dalle zone di impiego e sottoposte alla censura militare rappresenta il paradigma dell’offuscamento del mito della presenza italiana come apportatrice di benessere e civiltà.
Una testimonianza del comportamento delle camicie nere della legione e delle conseguenze dei metodi adottati nel corso dei rastrellamenti viene dalle parole di un soldato della 15.a compagnia mortai da 81 della Bergamo in una lettera al padre in provincia di Mantova o nelle memorie del cappellano militare della divisione Granatieri, che condivise dal settembre al novembre 1942 le settimane d'impiego nel corso di un ciclo operativo descrivendo le conseguenze dei rastrellamenti (19).
Ad una visione di generalizzata condanna nei confronti di tutte le truppe italiane nei Balcani, suffragata dalla attività di raccolta di dati e memorie a sostegno degli episodi nei quali gli italiani si macchiarono di crimini contro la popolazione civile, si contrappone infatti la documentazione che testimonia le vessazioni delle quali i militari italiani catturati vennero fatti oggetto con torture e sevizie da parte dei partigiani.
Il comportamento più diffuso del militare italiano nei territori occupati, genericamente tipico di tutti i reparti, ma spiccatamente caratteristico dei reparti di camicie nere, fu quello, come abbiamo visto dai due brani precedenti, del saccheggio e dell'incendio delle case e dei villaggi. Questa condotta, che faceva somigliare le truppe italiane a colonne di moderni lanzichenecchi e della quale rimane una imponente memorialistica, rimase pressochè costante per tutti i mesi di occupazione; rappresentava la risposta, del tutto controproducente, da un lato all'attività dei gruppi partigiani e dei loro fiancheggiatori, dall'altro, altrettanto controproducente, alla penuria di viveri e materiali che sembrava colpire sistematicamente i reparti.
Dopo alcune azioni di rastrellamento nell’area di Malovan allo scopo di individuare il gruppo partigiano là operante, responsabile dell’imboscata del 3 dicembre e del rapimento del capo manipolo Bartalucci e degli altri militari, le compagnie della LXXIX Legione si limitarono alla sorveglianza delle direttrici tra Spalato, Sinj e Livno, alternando i servizi di protezione per le autocolonne in transito alla vigilanza degli accantonamenti di Sinj e Kupres ove erano alloggiati i due battaglioni e la compagnia mitraglieri.
La mattina del 3 gennaio 1942, lungo la strada tra i villaggi di Briga e Trnava Poljane, veniva assaltato l'autoveicolo del servizio postale usato dagli italiani tra Sinj e Livno ed un’autocorriera al seguito. Un gruppo di 17 partigiani aprì il fuoco contro il mezzo, costringendolo ad arrestarsi ed uccidendo gli occupanti: due carabinieri, il colonnello Vito D'Aloia, ufficiale della divisione Bergamo e la camicia nera scelta Adolfo Quercini di Siena, classe 1905 (20).
L’autocolonna dei soccorsi, giunta sul luogo dell’agguato dopo alcune ore, riuscì a catturare alcuni civili che fuggivano dalle case di Vlaka, nei pressi delle quali vennero recuperati i corpi ancora all’interno degli automezzi; nel corso del successivo rastrellamento, condotto da tre plotoni dell’89° battaglione, gli abitati di Vlaka e Trnava Poljane, trovato abbandonato dalla popolazione e sospettati di aver ospitato gruppi di partigiani, vennero circondati ed incendiati per rappresaglia. Nel corso del tragitto di rientro a Sinj, la colonna ebbe modo di raccogliere 10 militari, tra i quali tre feriti, catturati dai ribelli e rilasciati probabilmente al momento dell’inizio del rastrellamento e dell’incendio dei villaggi. In una rincorsa affannosa a presidiare ogni principale centro abitato lungo le direttrici di comunicazione dell'entroterra dalmata contro le imboscate dei gruppi partigiani, il comando italiano decise per un nuovo riposizionamento dei reparti: le compagnie dei reggimenti 25° e 26° vennero dislocati in una serie di presidi lungo l'intero tracciato delle strade, da Sinj a Tomislavgrad, Prozor, Livno, Rujani, Sujica, Glamoc, Bugojno e Imotski. Il 97° battaglione venne concentrato a Kupres, eccetto la 2.a compagnia di supporto a Glamoc, e l'89° battaglione posizionato a Sinj con la 97.a compagnia mitraglieri di supporto (21); così disposti, i reparti avrebbero atteso il miglioramento delle condizioni climatiche per riprendere l'iniziativa contro i partigiani, contenendo la propria attività all’addestramento al combattimento ed a limitate azioni di rastrellamento nelle località più prossime ai presidi.
Durante il mese di gennaio i gruppi partigiani si limitarono a sporadiche incursioni in villaggi isolati, tali da non consentire una reazione immediata da parte dei reparti dislocati nei centri principali della zona; nelle settimane successive tuttavia si verificò una crescente attività dei ribelli, costringendo il comando italiano ad intensificare le azioni i rappresaglia, mediante l’incendio delle case dei villaggi di Udovicic e Ovrlja il 6 ed il 7 febbraio e con la cattura di alcuni ostaggi civili come deterrente. A partire al mese di febbraio infatti la strategia più frequentemente adottata dai partigiani prevedeva di organizzare imboscate ed agguati che provocassero l'arrivo dai presidi più vicini di reparti di soccorso o in attività di ricognizione per poi accettare l'ingaggio in caso di superiorità numerica oppure ripiegare velocemente verso le proprie basi in caso di condizioni ritenute sfavorevoli.
Una prima concreta applicazione di questa strategia coinvolse nel febbraio 1942 le camicie nere dell'89° battaglione tra i villaggi di Ribarica e Koljane: il 19 febbraio un camion in transito lungo la strada tra Vrlicka e Sinj venne fatto oggetto di un intenso fuoco di mitragliatrici e costretto a fermarsi. Dopo aver catturato un ufficiale e quindici domobrani presenti sull'automezzo, immediatamente condotti a Svilaj, i partigiani attesero l'arrivo dei reparti italiani.
Due compagnie inviate in soccorso tentarono l'ascesa alle alture sopra l'abitato di Krunic, incappando in un sistema di campanelli d'allarme mimetizzati nelle neve: ne nasce un furioso scontro a fuoco che costa la vita a due militi dell'89° battaglione, il vice Caposquadra Marino Pellegrini di Guardistallo e la camicia nera scelta Adolfo Bandini, oltre a numerosi feriti (22).
Alla tattica delle incursioni nei confronti dei villaggi isolati e degli agguati alle autocolonne in transito lungo le strade, i partigiani affiancarono un crescente utilizzo dei blocchi stradali, realizzati con l’abbattimento degli alberi o sempre più frequentemente con la tattica di minare la sede stradale, costringendo i reparti italiani a faticose operazioni di bonifica e riassetto delle rotabili; la minaccia di agguati ed imboscate, inoltre, obbligava a fornire una robusta scorta alle unità del genio incaricate dei lavori, incombenza sovente affidata alle compagnie dei battaglioni CC.NN. che sottraeva ulteriormente efficacia alla capacità di reazione dei presidi. Durante uno dei servizi di scorta e protezione ai reparti che ope-ravano sul fondovalle lungo la strada, il 14 marzo rimaneva ferita la camicia nera Alidio Martini di Montalcino allorchè il proprio reparto, in località Kalapic, in un primo momento accerchiato dal nemico causa la nebbia ed il terreno boscoso, riusciva a disimpegnarsi solo dopo un lungo scontro a fuoco.
L’insidia rappresentata dalle imboscate ed il costante stato di allarme proclamato fin dal 16 marzo dal comando della divisione Bergamo costringevano ad un quotidiano utilizzo di tutte le compagnie della Legione disponibili; nelle ultime settimane del mese infatti vennero assegnati continui servizi di scorta ad autocolonne ed operazioni di rastrellamento nei villaggi nei quali era stata segnalata la presenza di partigiani o elementi sospetti. Le opera-zioni, condotte con le compagnie di camicie nere autocarrate e con il supporto di mezzi blindati ed artiglieria divisionale, si spingevano lungo l’intera area di competenza divisionale, attraverso villaggi abbandonati dalla popolazione civile e che venivano dati sistematicamente alle fiamme: Podgreda il 23 marzo, Dolac il 24, Kukovic il 25, Vagali due giorni dopo, Katici ed i villaggi vicini il giorno 31, dopo che era stato necessario persino occupare il monastero di Dragovic, che i partigiani avevano fortificato con trincee e muri di pietra per sbarrare la rotabile.
Fu tuttavia il successivo mese di aprile 1942 a segnare l'episodio più sanguinoso della storia del 97° battaglione d'assalto; negli scontri attorno al massiccio del Vjestica Gora il reparto lamentò sette caduti, sei dispersi e ventuno feriti, che valsero ai suoi militi tre medaglie al valore militare, tre croci di guerra, due promozioni sul campo e otto encomi. Nella notte del 6 aprile un gruppo formato da circa cinquanta partigiani si era infiltrato lungo la strada tra Vrlika e Sinj per azioni di sabotaggio: secondo la consueta tattica, dopo aver divelto 107 pali del telegrafo e fatto crollare un ponte sull'affluente Debar del fiume Cetina, i ribelli si erano preparati ad una imboscata vicino al villaggio di Koljane nei confronti degli ustascia e degli italiani che fossero presto giunti a riparare i danni; un drappello di otto parti-giani si era trincerato vicino alla strada sul lato destro del fiume, mentre gli altri si erano schierati sulla riva sinistra su di una posizione elevata, da cui potevano meglio controllare la strada.
L’indomani venne fermata una corriera in transito sulla strada e tirati fuori a forza due ustasha che vi viaggiavano come passeggeri; dopo essere stati minacciati, vennero lasciati andare in direzione di Sinj, affinchè avvertissero il locale comando che la strada era occupata dai partigiani. Alle ore 13 si mosse infatti da Sinj una colonna di trenta automezzi, composta dal 97° battaglione rinforzato da una squadra mitraglieri e una sezione di mortai da 81, diretta verso le alture a nord di Sinj, per effettuare un rastrellamento lungo la rotabile per Vrlika-Vjestica Gora-Razdolje.
All'altezza del villaggio di Maljkova, la colonna si divise in due gruppi: mentre il più consistente, con ventiquattro mezzi, proseguì per Vrlika, dove il giorno prima erano stati strappati e divelti i pali telefonici isolando i collegamenti e dove erano stati segnalati partigiani ancora nell'area, i rimanenti sei camion continuarono la marcia lungo il lato destro del fiume. Il gruppo degli otto partigiani in agguato aprirono immediatamente il fuoco con fucili e mitragliatrici, incendiando il camion di testa e costringendo la colonna a interrompere la marcia, per poi ritirarsi gradualmente verso Svilaja: la colonna principale, che stava percorrendo la strada verso Vrlica, appena uditi gli spari e accortisi dell'imboscata, si venne a trovare sotto il tiro dei partigiani trincerati sulla collina sulla riva sinistra (23).
Nell'imboscata caddero colpiti a morte il centurione Bruno Crocchi di Torrenieri, classe 1893, cui venne conferita la medaglia di bronzo alla memoria, il capo squadra Olinto Medaglini di Montalcino, classe 1910, le camicie nere Eufemio Sassetti di Montalcino, classe 1912 e Nello Viti di Trequanda, classe 1908, deceduto il giorno 8 all'ospedale da campo n. 134 di Sinj per le ferite riportate (25); rimasero invece feriti i capo squadra Francesco Pellati di Siena e Angiolo Giannini di Chiusi, il vice capo squadra Crescenzo Antonini di Torrenieri, la camicia nera scelta Mario Brocchi di Casole d'Elsa, e le camicie nere Umberto Becatti e Mario Chini di Siena, Arturo Marchi di Casole d'Elsa e Mosè San-telli di Montepulciano.
La scomparsa del centurione Crocchi colpì profondamente la federazione fascista provinciale: proveniente da una famiglia di industriali che aveva già visto cadere due fratelli nel corso della prima guerra mondiale, aveva rappresentato per la comunità di Torrenieri, una frazione del comune di Montalcino, un imprescindibile punto fermo della vita economica e sociale (24). Pur esonerato dal servizio attivo come dirigente di stabilimento industriale ausiliario , si era arruolato volontario con il 97° battaglione assieme ad altri suoi dipendenti nella vita privata, la camicia nera Nello Viti, caduto assieme a Crocchi ed il vice capo squadra Crescenzio Antonini, che rimase ferito nella stesso scontro (26); nel corso del combattimento, colpito a morte il centurione Crocchi, il disimpegno del reparto sotto il fuoco nemico era stato completato dal capo squadra Francesco Pellati, il quale, benchè seriamente ferito, per la sua determinazione ricevette la promozione sul campo.
All'indomani i combattimenti ripresero ancora più intensi: confidando di aver assestato un colpo durissimo al nemico, il gruppo partigiano non si ritirò sulle alture del Vjestica Gora, dove aveva posto il comando, ma, imbaldanzito dal successo, pose il proprio campo nella pianura che costeggiava il villaggio di Razdolje per trascorrervi la notte. La colonna giunse nei pressi del villaggio mentre i partigiani erano ancora intenti a dormire nelle stalle: avvertiti da un pastore che gli italiani stavano risalendo quota 1272 a sud del campo per aggirare le posizioni lungo il crinale, i partigiani si schierarono frettolosamente occupando le alture circostanti.
La sorpresa e la lenta reazione dei ribelli non vennero adeguatamente sfruttate dalle camicie nere, che non riuscirono ad occupare anche la quota 1290 e chiudere così la ritirata: con l'arrivo di un altro gruppo partigiano, guidato dal comandante Vicka Krstulovic e che portò il numero dei combattenti a circa cento unità seguì un feroce scontro a fuoco. Sfruttando i pendii rocciosi del Vjestica Gora i partigiani respinsero per tutta la mattina gli assalti portati lungo un fronte di circa dieci chilometri, contrattaccando le unità che si erano spinte troppo avanti.
Alle 10 del mattina la 2.a compagnia comunicava di essere accerchiata e sottoposta all'attacco da tre lati; in suo soccorso accorreva la prima compagnia, che si venne subito a trovare bloccata sulle medesime alture. Cominciando a scarseggiare le munizioni ed impossibilitati a resistere, i reparti iniziarono il ripiegamento verso q.1251 e lo sgombro dei feriti, incalzati dai partigiani. Prima che le due compagnie riuscissero a disimpegnarsi ed a ripiegare nel villaggio di Zasiek, il combattimento aveva provocato circa venti tra morti, dispersi e feriti oltre alla cattura del comandante del reparto, il centurione Lavinio Vivarelli (27); la notizia giunse a Siena alla famiglia i giorni immediatamente successivi alla battaglia di Vjestica Gora e per alcuni giorni venne mantenuta la speranza di una possibile liberazione attraverso uno scambio con alcuni prigionieri.
Il comando partigiano, intenzionato inizialmente ad utilizzare Vivarelli per uno scambio di prigionieri e di restituirlo agli italiani in cambio degli esponenti del Partito Comunista jugoslavo Rade Koncar, detenuto nel carcere di Spalato, che sarebbe stato fucilato alcuni mesi dopo, e Ivo Lavcevic, trasferì immediatamente i prigio-nieri nelle retrovie, temendo un prossimo contrattacco italiano.
Questo si limitò solo ad un bombardamento di artiglieria che, pur colpendo la zona, non individuò i fienili dove si erano rifugiati i partigiani; ripresa la marcia di trasferimento, durante una sosta nei pressi del villaggio di Sajkovici, il capo del locale distaccamento partigiano Cvijo Orescic decise invece che il Vivarelli dovesse essere ucciso, per evitare che una volta tornato libero egli potesse indicare quel villaggio come una base dei partigiani, provocando rappresaglie. La notizia della morte dell'ufficiale venne portata al comando di battaglione da un pope della zona, senza che fosse possibile individuarne il cadavere.
Caddero, colpiti a morte, il centurione Goliardo Parisini di Bologna, classe 1908, vice comandante provinciale della G.I.L. di Siena, la camicia nera scelta Nello Bruni di Siena, classe 1906 e la camicia nera Arturo Bernardoni di Siena, classe 1908, attendente dell'ufficiale e dipendente del Parisini presso il Comando Provinciale di Siena della G.I.L. che cercò disperatamente di riportare il cadavere del superiore verso le linee italiane, prima di essere a sua volta colpito mortalmente. Cinque furono i dispersi, tra cui il vice capo manipolo Giuseppe Montini di Gaeta, classe 1914, oltre alle camicie nere Gilberto Pinzuti di Sinalunga, classe 1909, Serafino Nencini di Casole d'Elsa, classe 1910, Aldo Cappelli di Pienza, classe 1911 e Giuseppe Negrini di Siena, classe 1909; i feriti furono invece tredici, l'aiutante Aldo Bartoli di Siena, il capo squadra Galeazzo Floridi di Casole d'Elsa, il vice capo squadra Gregorio Giliotti di Cetona, la camicia nera scelta Elvio Goracci di Torrita di Siena, e le camicie nere Marino Baiocchi, Giuseppe Nocci e Assuero Prezzolini di Abbadia San Salvatore, Giuseppe Fanti e Umberto Monaci di Montalcino, Giovanni Giovannetti di Siena, Delfino Fe' di Sarteano, Giovanni Paradisi di Piancastagnaio e Giuseppe Mangiavacchi di Torrenieri, anch'egli dipendente di Bruno Crocchi nella vita privata.
Per il proprio comportamento, alla camicia nera Bernardoni venne assegnata alla memoria la medaglia d'argento al valore militare,mentre il centurione Parisini venne decorato con la medaglia di bronzo al valore militare alla memoria. Alle memoria delle due figure, molto note a Siena per l'attività in seno alla G.I.L., venne riservata una commossa celebrazione; più di anno più tardi, nella immediata vigilia del crollo del regime fascista, la stessa organizzazione giovanile utilizzò la morte dei due militi come esempio iconografico in uno degli ultimi appelli alla gioventù senese (28).
Anche ad altri militi vennero concesse decorazioni per la determinazione mostrata durante i combattimenti, a testimoniarne l'asprezza: il vice capo manipolo Giuseppe Montini, disperso nella giornata dell'8 aprile, venne promosso sul campo per meriti di guerra, analogamente al vice capo manipolo Sergio Rosi, che alla morte degli altri ufficiali, aveva condotto il ripiegamento ordinato del reparto, proteggendolo dalla minaccia di accerchiamento. Vennero inoltre decorati con la croce di guerra al valore militare le camicie nere Quinto Serafini, Elvio Goracci e Alvaro Meliciani, mentre il comportamento nel corso dei furiosi combattimenti valse inoltre l'encomio da parte del comando di legione ai vice capo squadra Dino Gambarotta di Chiusi e David Gambassi di Radda in Chianti, ed alle camicie nere Amelio Mammoletti, Corrado Capecchi e Ruggero Sbrolli di Abbadia S.Salvatore, Gabriello Mancini di Radda in Chianti, Alessandro Cami e Giovanni Brugnoli di Chiusi.Oltre al caso del centurione Vivarelli, del quale non venne ritrovato il corpo, anche per gli altri dispersi e le loro famiglie non fu possibile recuperare le salme dei legionari. (29)
Ad appena pochi giorni di distanza dai sanguinosi combattimenti del Vjestica Gora, le compagnie del 97° battaglione si trovarono nuovamente impegnate in combattimento: il 14 aprile entrambi i battaglioni della LXXXIX legione, rinforzati da una compagnia carri leggeri e supportati da una compagnia mortai e due batterie reggimentali vengono inviati in operazione di rastrellamento della zona a nord ovest della catena del Mosar, ove era stata segnalata una banda partigiana in movimento (30).
Dopo aver provveduto al rastrellamento della zona di Dugopolje, Ragosica, Staje e Jurenica nel corso del 15, il giorno successivo i reparti entrano in contatto con i ribelli, da cui ben presto si trovano attaccati e minacciati di accerchiamento. Costretti a sostare all'addiaccio sulle posizioni occupate, i reparti passano la notte a respingere tentativi di infiltrazione ed accerchiamento che costano la vita alla camicia nera Giuseppe Falsetti di Castiglione d'Orcia, classe 1911, decorato con la medaglia di bronzo alla memoria, oltre al ferimento di un milite dell'89° battaglione e della camicia nera Aldo Rocchi di Chiusi appartenente alla 97.a compagnia mitraglieri.
Rientrati il 19 aprile presso gli accantonamenti di Signo, i reparti della Legione vennero impegnati per tutto il resto del mese e nelle successive settimane fino a luglio in continui servizi di scorta alle autocolonne dirette a Spalato ed a Livno; a tali incombenze si alternavano le consuete periodiche operazioni di rastrellamento ordinate dal comando divisionale nelle zone in cui era stata segnalata la presenza di gruppi partigiani.
La metodologia repressiva condotta da parte dei reparti italiani nel corso dell’estate 1942 mantenne le consuete caratteristiche: nel corso del rastrellamento nella zona del Kasmenica effettuato tra il 16 ed il 18 maggio, dopo aver catturato decine di civili che non erano riusciti a fuggire in tempo, vennero bruciate tutte le case e capanne sospette di avere alloggiato i ribelli, nel corso delle operazioni contro le pendici del Vjestica Gora dal 10 al 14 luglio i villaggi dell’area tra Jelenic e Debolo Bic vennero pesantemente colpiti da un intenso bombardamento di artiglieria. Una reazione quindi che veniva ad essere considerata legittima da parte delle forze armate, ed infine giustificata agli occhi dell'opinione pubblica; una intensa attività di propoganda venne messa in moto per descrivere i ribelli jugoslavi come sanguinari criminali (31).
Il 10 luglio le alture del Vjestica Gora furono ancora il teatro di un'operazione di rastrellamento operato da una compagna di ustasha, novanta miliziani cetnici e reparti italiani interdivisionali composti dal secondo e terzo battaglione del 152° reggimento, del terzo battaglione del 151° reggimento della divisione Sassari, il secondo del 25° reggimento ed il secondo del 26° reggimento della Bergamo, una compagnia del 97° battaglione di rinforzo all’89° battagalione, due batterie dell'81° reggimento di artiglieria e un plotone lanciafiamme: ripartite in colonne distinte, le forze italiane, croate e cetniche, quest'ultime guidate personalmente dai pope Dujic e Bugonovic, cercarono di circondare il Vjestica Gora e di attaccare da direzioni differenti (32).
La prima colonna di attacco da nord, attraversando i villaggi di Peulje, Crni Lug, Kazanci e Sajkovici, la seconda dall'abitato di Koljane ad ovest, la terza infine da sud-est proveniendo da Hrvace, tutte con il compito di strigere progressivamente l'anello attorno al Vjestica Gora ed alle bande partigiane; la quarta colonna avrebbe dovuto infine chiudere ogni via di fuga verso i villaggi di Vrdova e Kamesnici. Dopo aver preso contatto con i partigiani all’alba del giorno 12, con il supporto dell'artiglieria e di uno spezzonamento aereo i reparti mossero iniziarono l'attacco, occupando i villaggi di Vrdova, Razdolje e Bravceva Dolca che, trovati abbandonati dalla popolazione, vennero incendiati; il lento movimento di avvicinamento alle alture del Vjestica Gora, rallentato dalle pessime condizioni atmosferiche e l'accanita resistenza dei gruppi partigiani ritardarono la progressione e l’efficacia della manovra, fino al completo arresto dell'avanzata al calar della sera.
Nel corso della notte, i partigiani sfondarono la linea di accerchiamento nel settore tenuto dai cetnici, tra Kazanci e Crni Lug, riuscendo a sfilare quasi interamente; circa 800 partigiani riuscirono a sfuggire al rastrellamento e riparare nella zona di Koljane, dove rinforzarono le posizioni del 2° battaglione dalmata . Nel corso dell’operazione, nei pressi del villaggio di Gradina, elementi della 2.a compagnia del 97° battaglione avevano recuperato la salma del capo manipolo Parisini caduto negli scontri dell’8 aprile precedente ; rientrati agli accantonamenti di Sinj, i reparti della Legione ripresero i consueti servizi di scorta alle autocolonne dirette a Spalato.
Veniva intanto costituita la Compagnia Divisionale Arditi, deno-minata “Frecce Nere”, formalmente la prima compagnia dell’89° battaglione CC.NN. Etrusco rinforzata da due plotoni del 97° battaglione e da un plotone mitraglieri della 97.a compagnia, a disposizione del comando divisionale ed utilizzata per compiti di esplorazione ed intervento rapido; il battesimo del fuoco dell’unità avvenne il 26 agosto, durante il rastrellamento dell'area di Biakovo e del passo Sv.Ilija (Sant’Elia) dove era stata segnalata la presenza di una banda partigiana. Nell’attacco cadeva la camicia nera Ivo Contorni di Abbadia San Salvatore, classe 1911, falciato mentre assaltava una posizione di mitragliatrici posizionata su di un costone; veterano della campagna in Africa Orientale, ed in quella di Spagna era stato tra i primi ad entrare a Castua nella prima operazione del battaglione nel corso della campagna jugoslava, gli venne conferita la medaglia di bronzo al valore militare alla memoria (33).
L'asprezza dello scontro e la determinazione mostrata dai militi valsero l'encomio solenne del comandante del Corpo d'Armata al vice capo squadra Adamo Betti ed alle camicie nere Corrado Emilio Gori e Roberto Maccari, tutti di Sarteano ed appartenenti alla compagnia mitraglieri. Vennero inoltre premiati con un encomio solenne da parte del comando della divisione Bergamo in data 28 agosto 1942 e del comando di battaglione in data 4 settembre le camicie nere Corrado Fineschi di Montalcino, Ugo Gagliardini di Rapolano e Igino Piccinetti di Abbadia San Salvatore, impegnati presso il presidio di Zrnovica.
Occupato il passo e posto in sicurezza la zona, le camicie nere della compagnia Arditi procedettero al rastrellamento anche nei giorni successivi, incendiando i villaggi della zona di Draga e Malj Vrk trovati abbandonati dalla popolazione civile in attesa di congiungersi con le avanguardie della Divisione Messina destinata a dare il cambio al reparto; il 2 settembre infine il comando Legione ed i reparti dipendenti si dispiegavano tra Makarska e Zadvarje, in prossimità della litoranea Spalato-Almissa. Nelle prime settimane del mese le operazioni compiute dalle compagnie del 97° battaglione si dispiegarono infatti lungo la costa dalmata: oltre alle operazioni di rastrellamento divenute consuetudinarie, effettuate per via ordinaria e più raramente autocarrati, frequenti furono persino i trasferimenti con motozattere e velieri con partenza da Almissa e San Martino per effettuare rastrellamenti e ricognizioni nei villaggi costieri di Vranjca, Gustrina e Vrsine.
Seguendo quella che fu l'abituale inclinazione del comando ita-liano a spostare i reparti di camicie nere e posizionarli in base alle esigenze e alle necessità del momento, dal mese di settembre 1942 al successivo novembre il 97° battaglione passò organicamente sotto il comando del V corpo d'Armata, composto dalle divisioni di fanteria Re, Lombardia e Granatieri, con cui prese parte a due cicli operativi nell'Erzegovina: il 19 settembre il reparto parte da San Martino per la zona di Grahac e successivamente a mezzo ferrovia per Perusic, ove si accantonò il giorno 22 in attesa dell’inizio del ciclo operativo.
Nel corso dell'inizio delle operazioni di rastrellamento della zona del monte Korcula, il battaglione si lancia all'assalto di quota 564, dovendo resistere dopo quattro ore di accanito combattimento, per il quale ottenevano l'encomio solenne del Comandante del V Corpo d'Armata il vice capo squadra Aldo Ricci di Gracciano di Montepulciano e la camicia nera Dino Favilli di Siena, respinti dall'accanita resistenza del reparto partigiano e dalla natura del terreno impervio.
Ad inizio del mese di ottobre 1942, una giornata seconda per asprezza solo a quelle dei combattimenti sul Vjestica Gora, avrebbe preteso dal battaglione un nuovo pesante tributo di sangue. L'attività dei gruppi partigiani si era intensificata in tutto il settore di competenza del V corpo d'armata: scontri a fuoco venivano segnalati con reparti del terzo battaglione del 74° reggimento di fanteria della divisione Lombardia nei pressi della torre di guardia di Ogulin il giorno 1 e con quelli del terzo battaglione del 122° reggimento fanteria della divisione Macerata lungo la strada tra Delnica e Brod na Kupi il giorno seguente. Nel settore della divisione Granatieri il 2 ottobre alcuni reparti partigiani erano stati protagonisti di attacchi contro i presidi attorno all'abitato di Medak lungo la strada, mentre il terzo battaglione del 151° reggimento aveva dovuto combattere duramente per respingere un attacco tra Risovac e Metlaci; l' XI reggimento bersaglieri infine era stato impegnato da una forte resistenza sulle alture tra i villaggi di Smiljan e Brezovo (34).
Nella notte tra il 2 ed il 3 ottobre un'altra azione di sabotaggio aveva seriamente danneggiato un tratto di ferrovia tra Gospic e Ribnik; all’alba il 97° battaglione si diresse dal presidio di Lesce dapprima a mezzo ferrovia a Gospic e successivamente nella zona di Bilaj per verificare la situazione e proteggere i reparti del Genio incaricati di effettuare le riparazioni della linea ferroviaria e stradale. Avvisato che un forte contingente partigiano si trovava ancora nell’area, il comando divisionale della Re dispose l’immediato ordine di attacco alle tre compagnie rinforzatecda un plotone esploratori; dopo tre ore di strenuo combattimento, i reparti ricevono l'ordine di ripiegare.
Negli scontri caddero il vice caposquadra Igino Martini di Mon-talcino, classe 1914, la camicia nera Sestilio Guerranti di Monteriggioni, classe 1908, e le camicie nere Ermenegildo Garoni di Montalcino, classe 1909, Gilberto Marini di Arcidosso, classe 1914, Giuseppe Marconi di Montalcino, classe 1907, questi ultimi tutti appartenenti, assieme a Martini, al Fascio di Castelnuovo dell'Abate, piccola frazione di Montalcino. Rimasero invece ferite le Camicie Nere Giacinto Beligni e Artemio Mazzeschi di Sinalunga, Pietro Palmieri e Marino Guerrini di Castiglione d'Orcia, Carlo Medaglini e Arturo Ferretti di Montalcino. Alla memoria del vice caposquadra Martini sarebbe stata assegnata la medaglia di bronzo al valore militare.
Lo stillicidio di perdite dell’ottobre 1942 non si arrestò con la battaglia di Ribnik: oltre alle sporadiche operazioni di rastrellamento, anche i servizi di scorta ad autocolonne in transito e di protezione ai reparti del Genio per la riparazione di strade e linee telegrafiche rappresentavano un costante esporsi ad imboscate ed agguati sempre più intraprendenti. Il giorno 18, nel corso di un servizio ordinario di ricognizione, i reparti della Legione furono coinvolte in uno scontro a fuoco; assieme al capomanipolo dell’89° battaglione Paolo Losa, classe 1906 e alla camicia nera Mario Perini di Lari, classe 1908, cadeva la camicia nera Francesco Guidarelli di S. Casciano dei Bagni, classe 1912, appartenente alla 97.a compagnia mitraglieri, decorato alla memoria con la croce di guerra al valore militare. Un'analoga asprezza contraddistinse la giornata del 21 ottobre, quando tutti i reparti della Legione vennero impegnati in scontri ed agguati nelle zona Studencj, Arzane e Zelevo; per la determinazione dimostrata veniva assegnato al I° capo squadra Settimio Mazzuoli di Radicofani un encomio solenne da parte del comando della divisione Bergamo.
I giorni seguenti il 97° battaglione venne impegiato in operazioni di rastrellamento e ricognizione a breve raggio, durante le quali vennero occupati i centri abitati di Dugopolje, al solito abbandonato dai civili all’approssimarsi delle camicie nere, e di Zelovo, dove vennero incendiate le case rimaste illese dal cannoneggiamento delle batterie dell’artiglieria; nei villaggi attraversati durante la marcia i militi si occuparono anche di cancellare le scritte di propaganda comunista che campeggiavano sulla maggioranza dei muri. Esaurito finalmente il proprio compito nelle operazioni nell'Erzegovina, alla fine di ottobre il 97° battaglione rientrò organicamente entro i reparti del VI corpo d'Armata, di nuovo alle dipendenze dirette della divisione Bergamo.
Alla vigilia dell'inverno ed a causa dell'intensificarsi degli episodi di imboscate e sabotaggi da parte delle formazioni partigiane, il comando italiano si persuase a dispigare i reparti su di un settore molto più ridotto rispetto all'anno precedente, a protezione di Spalato. Ad inizio novembre, terminato l'arretramento della linea di-fensiva attorno alla città, ove era posizionato il comando divisionale della Bergamo, il comando della LXXXIX Legione ed il terzo battaglione del 25° reggimento, le guarnigioni vennero concentrate come presidio delle principali località: a Sinj il primo ed il secondo battaglione del 25° assieme all'89° battaglione CC.NN., a Zadvarje il secondo battaglione del 26° reggimento, ad Imotski, a 40 chilometri ad est di Spalato il primo battaglione del 26°, a Livno il terzo del 26° reggimento, a Makarska il 97° battaglione camicie nere ed a Klis, appena a 15 chilometri a nord di Spalato, la 97.a compagnia mitraglieri (36).
Malgrado la riduzione del territorio di competenza dei reparti e la loro concentrazione in presidi meno isolati, che nel disegno dei comandi avrebbe dovuto permettere un maggior contrasto all'attività delle bande partigiane, l'effetto più immediato che questa produsse fu l'abbandono ed il disimpegno dalle aree più periferiche dell'entroterra dalmata e della Erzegovina, nelle quali si infiltrarono rapidamente i gruppi ribelli. Il disegno tattico di poter meglio presidiare un territorio più ridotto e conseguentemente meno esposto alle imboscate lungo le strade che si inerpicavano lungo le alture ed i boschi dell'entroterra non venne raggiunto, dal momento che l'aggressività delle attività di sabotaggio e di imboscata dei partigiani si spostò progressiva-mente fino ai sobborghi di Spalato.
I reparti della Legione trascorsero l’intero mese di novembre in continui servizi di pattugliamento, sorveglianza di presidi e capisaldi e scorta per la quotidiana attività di riparazione delle vie di comunicazione, sottoposti ad un costante pericolo rappresentato dall’intraprendenza delle unità partigiane; il 15 novembre un plotone della prima compagnia del 97° battaglione dovette intervenire in soccorso del caposaldo di Makarska sud, attaccato durante la notte da un gruppo di ribelli, il 20 in un agguato ad un'autocolonna di genieri presso Klis veniva ferita la camicia nera Alberto Bambini di Montepulciano del plotone mitraglieri in servizio di scorta.
I due episodi fecero da prologo alla giornata del 4 dicembre 1942, quando la Legione subì un durissimo colpo nel corso di un'imboscata lungo la strada litoranea tra Spalato e Makarska, tra i villaggi di Krilo e San Martino, quando rimasero uccisi due ufficiali e ventuno camicie nere, oltre a sedici feriti tra i quali un ufficiale; alle ore 8 un plotone della 3.a Compagnia dell'89° Btg.CC.NN. rinforzato da una squadra della 97.a Compagnia Mitraglieri CC.NN. partito autocarrato per recarsi in località Grljevac a scorta alla squadra dei tagliatori del bosco vennero investiti da raffiche di armi automatiche e fucili provenienti dalle quote dominanti e da tutti i lati della strada nei pressi di S. Martino. L'allarme dato da una postazione vicina al villaggio fece mobilitare i reparti del caposaldo e quelli giunti di supporto, senza tuttavia riuscire a prendere contatto con il reparto partigiano che riusciva a rifugiarsi nelle alture oltre Podstrana.
I caduti dell'89° battaglione furono il Centurione Vincenzo Lessi, il Capomanipolo Giovanni Grassullini, il Sotto Capomanipolo Diego Fagioli, il caposquadra Spartaco Franchi, le camicie nere scelte Mario Giacomelli, Goffredo Bertini, Gino Bertelli e Amos Gasperini, le camicie nere Libero Fedi, Gabriello Bellucci, Secondo Burgalassi, Rizieri Bientinesi, Remo Bianchi, Guido Ferretti, Dino Iacoponi Dino, Nicola Lombardi, Dante Maggini, Salvatore Marsella, Corrado Vanni, Duilio Falugi, Nello Orlandini, Ernesto Turini. Tra i militi appartenenti alla 97.a compagnia mitraglieri di scorta all'autocolonna, caddero il caposquadra Bruno Mencattelli di Montepulciano, classe 1911 e la camicia nera Carlo Mencatelli di Montepulciano, classe 1912, mentre rimasero ferite le camicie nere Zelindo Bianchini di Pienza, Archimede Cittadini di Montepulciano e Olivie-ro Boldrini di Radicofani. Alla camicia nera Carlo Mencatelli venne concessa alla memoria la medaglia di bronzo al valore militare ed al capo squadra Bruno Mencattelli venne concessa alla memoria la croce di guerra al valore militare; per il comportamento tenuto nel corso del combattimento, alla camicia nera scelta Quinto Barbieri di Piancastagnaio venne tributato l'encomio solenne da parte del comando della legione.
Dopo appena due giorni il 97° battaglione perdeva inoltre le camicie nere Brunetto Granai di Asciano, classe 1906 e Antonio Calabresi di Montepulciano, anch'egli della classe 1906; di presidio nel villaggio di Baska Voda, posto lungo la litoranea a sud di Spalato, i due militi trovarono la morte nel corso della notte per le esalazioni di monossido di carbonio da una rudimentale stufa utilizzata per ripararsi dal freddo.
Le località teatro delle azioni di sabotaggio o delle imboscate erano sempre più vicine alla città di Spalato ed in tutto il litorale veniva segnalata la continua presenza di gruppi di ribelli: il 9 dicembre solo il pronto intervento dei capisaldi tenuti dalla 97.a compagnia mitraglieri di Makarska riusciva a respingere un attacco in pieno giorno condotto dai partigiani ad una batteria del 4° reggimento della Bergamo, uscita imprudentemente dal posto di blocco per allenare i cavalli. L’intraprendenza e la capacità di infiltrazione dei partigi anche nei centri urbani presidiati dai reparti italiani è testimoniata dall’encomio ricevuto dai caposquadra Giulio Datteroni di Sinalunga e Abramo Piazzi di Cetona da parte del comando della divisione Bergamo per aver permesso la cattura di un gruppo di fiancheggiatori a Makarska durante le ore di libero uscita.
La necessità di proteggere le principali linee di comunicazioni era divenuta impellente, dopo che il 15 dicembre la linea ferroviaria Spalato-Knin era stata resa inutilizzabile per giorni a causa di una mina che aveva fatto deragliare un treno blindato scortato da due plotoni della Compagnia Arditi Frecce Nere; la dinamica dell’imboscata organizzata dai partigiani presso Kastel Stari (Castelvecchio) aveva palesato la vulnerabilità delle linee di comunicazioni anche in prossimità dei principali centri abitati: durante un servizio di scorta sul treno blindato sul tratto Spalato-Knin, la locomotiva urtava una mina posta sulla strada ferrata appena dopo la stazione, mentre dai roccioni soprastanti i partigiani aprivano un nutrito fuoco di fucileria, lancio di bombe a mano e grossi macigni che vengono fatti rotolare sul tetto dei carri blindati e bloccando la linea per un giorno intero. Il 19 dicembre l’intero 97° battaglione riceveva ordine di trasferimento per l’area di Kastel Stari, nodo cruciale per le comunicazioni ferroviarie posto a pochi chilometri da Spalato tra la costa e le alture prospicienti che si elevavano a quote superiori ai 500 metri: la prima e la terza compagnie provvedevano ad attendarsi sui costoni ed iniziavano i lavori di fortificazione. Uno dei presidi, appena una settimana dopo, subiva un attacco simultaneo da tre lati operato da un gruppo di circa duecento partigiani, che provocava il ferimento di tre legionari della terza compagnia, il vice caposquadra Rinaldo Tarloni e le camicie nere Metello Nucci e Niccolino Ciacci, entrambi di Asciano.
Il 1942 si chiudeva per il 97° battaglione e per l'intera legione divisionale con un bilancio pesante in termini di perdite; in dodici mesi di attività di contrasto ai partigiani, la LXXXIX legione lamentava cinquantanove tra caduti e dispersi e ottantadue feriti, pari ad circa il 15% degli effettivi presenti in forza. Da un raffronto con altri battaglioni della Milizia impegnati nei territori della ex-Jugoslavia possiamo valutare che l'entità delle perdite, molto rilevanti, risultava comunque omogeneo rispetto a quelle di altri reparti di camicie nere presenti: la XLIX Legione, formata dal 49° e dal 53° battaglione camicie nere ed aggregata alla divisione Marche in Bosnia, ebbe nel medesimo periodo circa sessanta tra morti e dispersi ed oltre sessanta feriti, ed analoghe perdite ebbe la LXXXVI legione, formata dal 134° e dal 137° battaglione camicie nere ed aggregata alla divisione Lombardia in Croazia.
La Milizia pagò uno pesante tributo alle condizioni nelle quali fu chiamata a combattere, che affondavano le proprie radici nella contradditoria politica operata nei confronti dei reparti dal fascismo; con un addestramento limitato ed un equipaggiamento carente in termini di potenza di fuoco, solo formalmente coesi con i corrispettivi reparti dell’esercito, i militi si trovarono ad affrontare un conflitto duro e spietato, contro un avversario che faceva della propria prerogativa la capacità di ingaggiare il nemico con una forza d'urto improvvisa e disimpegnarsi poi con agilità, muo-vendosi tra boschi e montagne che favorivano una guerra di logoramento ed ingigantivano gli effetti delle imboscate.
Dopo i rovesci militari in Africa Settentrionale ed in Russia il morale delle truppe era generalmente molto basso, persino incline allo scoramento tra le fila dell'esercito; le sorti della guerra apparivano inesorabilmente segnate e l'andamento delle operazioni nella ex-Jugoslavia non incoraggiavano l'ottimismo; i proclami della propaganda, cui per forza di cose le camicie nere apparivano maggiormente sensibili, non erano sufficienti a modificare lo spirito dei combattenti, costretti ad una guerra di logoramento in un territorio ostile e lontano dalla Patria, prossimo prevedibile obiettivo dell'attacco nemico. L'indebolimento del morale dei combattenti al fronte andava di pari passo con quello della popolazione nella madrepatria, sottoposta quotidianamente a condizioni di vita sempre più dure e alle devastazioni prodotte dai bombardamenti, in una reciprocità di causa ed effetto favorita dalla corrispondenza o dal ritorno a casa per una licenza.
I reparti della Legione continuavano intanto le proprie operazioni di rastrellamento, con obiettivi sempre limitati, anche a cauda dell’inclemenza del tempo che rendeva difficoltose iniziative ad ampio raggio; per tutto il mese di gennaio le compagnie fucilieri vennero impiegate in servizi che alle consuete scorte armate ai treni in transito nell’area di Spalato alternavano brevi incursioni all’interno del territorio dove erano stati segnalati movimenti partigiani
Lo scenario che si presentava ai legionari era sempre quello di villaggi abbandonati dalla popolazione maschile, con i muri delle abitazioni inneggianti ai partigiani e contro gli italiani. Perquisite le case, venivano spesso rinvenuti i materiali troppo pesanti per poter essere evacuati e munizioni: così il giorno 3 durante il rastrellamento di Verbani, dove vennero incendiate le abitazioni dei partigiani, a Sv.Anna e Sv.Grad dove entrambi i villaggi vennero dati alle fiamme; l’11 nella zona di Segit, quando vennero catturati oltre venti civili che non erano riusciti a fuggire all’arrivo dei primi plotoni ed incendiate le case dei villaggi. Ancora il 25, quando la Compagnia Arditi viene inviata di supporto sull’isola di Brazza per un rastrellamento durante il quale nel paese di Sv.Peter (S.Pietro di Brazza) vennero passati per le armi alcuni partigiani catturati.
Il 1 febbraio la 97.a Legione celebrava, nel suo ventennale, quella che sarebbe stata l'ultima celebrazione della ricorrenza della propria fondazione, con una sobria cerimonia a Siena presso il Sacrario dei Martiri Fascisti nella cripta della Basilica di S. Domenico a Siena (37), mentre a Kastel Stari e Salona i reparti ricevevano la visita del Federale di Spalato e dei rappresentanti dei Fasci locali; appena tre giorni prima proprio i capisaldi di Kastel Stari e quota 488, posti a difesa dei binari ad appena dieci chilometri dallo smistamento ferroviario di Spalato, avevano subito un violento ed improvviso attacco notturno che aveva impegnato due compagnie prima di essere respinto.
Il giorno 14, nel corso di un’operazione di rastrellamento condotta dalla Compagnia Arditi nell’area di Vojvodici, un violento scontro a fuoco impose un nuovo tributo di sangue alla Legione, che dovette registrare sette caduti, sei dispersi e sei feriti, tra cui le camicie nere Italo Anichini di Casole d’Elsa e Luigi Savelli di Lucignano d’Arbia: ricevuto l'ordine di rastrellare i villaggi di Pavicici e Vojvodici, il reparto legionale venne a trovarsi completamente esposto su un costone nei pressi dei villaggi ed immediatamente attaccato da un numeroso gruppo partigiano, che indossava elmetti e divise italiane, rendendo impossibile l'intervento dell'artiglieria di supporto. Il ripiegamento, effettuato sotto la pressione nemica, fu inevitabilmente lento e difficile, costando la vita al capomanipolo Gino Nannetti di Volterra, ed altri sei legionari dell'89° battaglione, oltre a sei dispersi e sei feriti, tra i quali Italo Anichini di Casole d’Elsa e Luigi Savelli di Lucignano d’Arbia.
L'andamento delle operazioni sul territorio si trascinava sull'inerzia dei mesi precedenti, con una ridotta attività di ricognizione che si limitava alle principali strade di comunicazione; lo stesso comando del XVIII Corpo d'Armata del 20 febbraio 1943, che informava sull'attività nel proprio settore: nei pressi degli abitati di Nojevi e di Vranjica, sobborghi della città di Spalato, distanti solo pochi chilometri dal porto, alcune pattuglie della divisione Bergamo in attività di ricognizione erano state attaccate da gruppi ribelli, che poi si erano dileguati senza subire perdite. Ultimate intanto le opere di fortificazione a quota 488 e Kastel Stari e ricevuto il cambio a difesa dei capisaldi dal 151° reggimento della divisione Sassari, il 97° battaglione ricevette ordine di trasferimento e giunse l’11 marzo a Salona, dove da alcune settimane era accantonata in baracche la compagnia mitraglieri, in attesa dell’inizio del nuovo ciclo operativo.
Pochi giorni dopo infatti, il battaglione riceveva l’ordine di spostamento, per via ordinaria a Grlo, da dove avrebbero avuto inizio le operazioni congiunte con l’89° battaglione CC.NN. e reparti dell’esercito in una vasta area tra le montagne situate a nord e nord-est di Spalato; con il supporto di un plotone carri leggeri e con l’obiettivo di liberare e riattivare la rotabile interrotta in vari punti, la colonna formata dalla Legione incontrò fin dall’inizio della manovra i primi ostacoli: blocchi stradali e mine costringono il reparto ad abbandonare i mezzi e proseguire a piedi il rastrellamento. Dopo aver occupato acuni villaggi della zona, ed averne incendiate le case degli appartenenti partigiani, il 97° battaglione prosegue il movimento, rallentato da piccoli scontri a fuoco che lo costringono a continue soste ed alla messa in sicurezza delle posizioni, e nei quali rimane ferita la camicia nera scelta Gino Mancini.
Nei giorni seguenti le compagnie del battaglione non riuscirono a prendere contatto con i partigiani operanti nell’area, capaci di disimpegnarsi agevolmente e di ripiegare sulle alture più interne; nei villaggi di Glavi-com, Postinje e Roljne Staje, trovati durante lo svolgimento delle operazioni al solito abbandonati dalla popolazione maschile, vennero requisiti capi di bestiame e dati alle fiamme le case dei sospetti partigiani. Dopo una sosta a Muc, il 97° battaglione riprese il movimento, proseguendo il 26 le operazioni di rastrel-lamento dei villaggi di Malec, Skole e Nisko, ancora senza incontrare resistenza e potendo procedere solo alla consueta e sistematica requisizione del bestiame. L’impossibilità di prendere contatto con i partigiani e l’assenza di risultati concreti si mantennero costanti anche nel resto del ciclo operativo, che si concluse l’11 aprile quando i reparti, dopo le ultime operazioni di rastrellamento tra Viljak e Liubitovic, si portarono a Kastel Stari.
Nel corso dello svolgimento nel ciclo operativo, il battaglione lamentava un’altra perdita, quella della camicia nera Redento Saturni di Castiglione d'Orcia, classe 1909, appartenente alla compagnia mitraglieri, deceduto il 23 marzo presso l'ospedale da campo n. 349 per una grave infezione contratta nelle settimane precedenti; per la 97.a Legione si sarebbe trattato dell’ultimo caduto sul teatro operativo.
Il 12 aprile a Siena il comando della 97.a legione veniva intanto assunto assunto dal Console Antonio Niccoli, proveniente dalla 168.a legione di Ragusa, che subentrava al Primo Seniore Giovanni Granai, già comandante della Coorte Territoriale durante il suo impiego nei primi mesi di guerra sull’appennino pistoiese ; dalla nomina del Console Alberto Borgia nel 1923, Niccoli sarebbe stato il nono ed ultimo comandante della Legione.
Anche il regime mostrava di aver compreso che la parificazione della Milizia alle altre forze armate e la fascistizzazione dell'esercito non solo non erano state realizzate; se la prima mancata realizza-zione aveva intaccato il morale dei reparti di camicie nere e gene-rato un senso di diffuso e mai sopito sentimento di rivalsa ed inferiorità, la seconda aveva contribuito ad allontanare definitivamente il fascismo dai soldati e dalla popolazione, creando una frattura che le vicende della guerra avevano reso irrimediabile. Nel 1943 l'esercito italiano, esclusa qualche isolata eccezione, non aveva alcuna motivazione politica a continuare una guerra, se mai ne avesse avuta una negli anni precedenti; accettato l'ingresso in guerra per un calcolo speculativo e pragmatico, le forze armate non avevano palesato alcun interesse nella connotazione politica della guerra fascista, distinguendosi nettamente in questo dalle camicie nere. La spaccatura tra esercito e regime, acuita già dopo i primi rovesci militari, era divenuta insanabile.
Sul campo, pur potendo contare su di una forza effettiva che si era ridotta a meno di novecento effettivi, i reparti della Legione venivano distribuiti in compiti di mero supporto operativo; persino nel corso del ciclo operativo 20 marzo - 11 aprile, mentre partecipava con reparti divisionali alle operazioni a nord di Spalato, almeno una compagnia continuava ad essere impiegata come scorta alle squadre di genieri incaricate di riparare le linee telefoniche lungo la ferrovia litoranea.
Concluso il ciclo operativo, la Legione ricevette l’ordine di trasferimento, dapprima per via ordinaria a Spalato, e poi a mezzo ferrovia dalla città con destinazione Drnis, ove giunse il giorno 18 aprile per dare il cambio al 152° reggimento della divisione Sassari, prendendo in consegna i vari capisaldi ed i posti di blocco della cittadina. La permanenza dell’intera Legione nella zona di Drnis si protrasse fino all’inizio del mese di luglio, per oltre dieci settimane durante le quali i reparti godettero di una relativa tranquillità che non aveva avuto riscontro fin dalla fine dell’anno 1941; nel corso del mese di maggio il Comando della Legione fu in grado di organizzare ben dieci spettacoli cinematografici per i legionari e per i militari del presidio di Drnis liberi dal servizio. Collocate tra i caposaldi di Dnis e Siveric a pochi chilometri di distanza, posti lungo la linea ferroviaria tra Spalato e Knin ed in direzione della Bosnia, le compagnie assolsero quotidianamente al compito di scorta ai treni in percorrenza nel tratto tra Drnis e Per-kovic e alla sorveglianza del lavoro compiuto dal Genio impegnato in continue riparazioni alle linee telefoniche a causa dei sabotaggi effettuati da gruppi partigiani durante la notte.
Il 19 maggio a Siena riceveva intanto l'ordine di mobilitazione per un periodo di istruzioni la coorte complementi, destinata a fornire i rimpiazzi per il battaglione al fronte; alla sede del comando di legione si presentava, riuscendo ad ottenere l'arruolamento nella coorte, la camicia nera scelta Angelo Conti di Castiglione d'Orcia, appartenente alla classe 1883, veterano della oramai lontana Campagna in Africa Orientale.
Il 31 maggio 1943 il Console Libano Olivieri prendeva commiato dai reparti che aveva guidato per due anni; al suo posto, ed il 14 giugno si insediava a Drnis il Console Paolo De Maria, che avrebbe comandato la Legione nelle caotiche giornate del 25 luglio e dell’8 settembre; ufficiale proveniente da XXX, De Maria era stato collocato nella riserva della M.V.S.N., decisione contro la quale aveva impugnato e vinto due ricorsi contro il Consiglio di Stato l’8 luglio 1941 e il 27 ottobre 1942 in via definitiva, ottenendo dal Comando Generale della Milizia la rimmissione in servizio ed il comando della Legione negli ultimi mesi di guerra.
Nei primi giorni dall’insediamento, il nuovo comandante ebbe subito l’occasione di confrontarsi con il teatro tattico, guidando personalmente i reparti in due rastrellamenti operati il 25 ed il 27 giugno nell’area della stazione di Zitnic a seguito di segnalazioni di infiltrazioni di gruppi partigiani lungo la linea ferroviaria. Le due operazioni non dettero esito, non riuscendo a prendere contatto con i ribelli che dopo aver tentato di danneggiare i binari e di abbattere i pali telegrafici, avevano ripiegato senza perdite sulle alture della zona.
Il 6 luglio 1943, dopo settimane di relativa tranquillità, la Legione ricevette l’ordine di movimento per l’inizio di quello che avrebbe rappresentato l’ultimo ciclo operativo di contrasto all’attività partigiana; ricevuto come rinforzo alcuni battaglioni di bersaglieri, il 9 luglio la compagnia mitraglieri, in appoggio al 31° battaglione bersaglieri, occupava l'abitato di Zrnovica. Posta su un'altura nei pressi della strada costiera, si trattava della medesima località che aveva visto l'arrivo nel maggio 1941 delle prime unità legionarie, salutate dalla popolazione civile con un atteggiamento non ostile, tanto da dare alla propaganda l'occasione di celebrare la redenzione della Dalmazia (38). Dopo aver sorpreso un gruppo partigiano all'interno del villaggio, l'abitato venne circondato; ne nacque uno scontro a fuoco che costò il ferimento della camicia nera Settimio Perugini di Sinalunga e la morte di un bersagliere, e che venne risolto solo grazie all'intervento dell'artiglieria ; occupato il villaggio e ricacciati i partigiani sulle alture circostanti, i militi recuperarono al suo interno sessantatre caduti, tra cui anche molti civili coinvolti nei combattimenti, oltre a fucili, bombe a mano e munizioni, mentre per rappresaglia ventisette case venivano date alle fiamme. La camicia nera Perugini, che già il 2 giugno aveva ricevuto l'encomio solenne da parte del comando di legione per avere, assieme ad altri camerati, bloccato e consegnato ai carabinieri della stazione di Sinj tre individui sorpresi a lanciare volantini invitanti alla resa, venne decorato della croce di guerra al valore militare. Proseguendo nell’operazione finalizzata a liberare la strada co-stiera dalla presenza di gruppi partigiani, quattro giorni dopo una compagnia del 97° e una compagnia dell'89° battaglione operava-no una puntata esplorativa congiuntamente a reparti di miliziani croati nell'area di Makarska, circa cinquanta chilometri a sud di Spalato, occupando le alture dominanti la litoranea (39). Dopo aver superato la resistenza di un gruppo di partigiani in uno scontro a fuoco che costava la perdita di un caduto e dieci feriti, tra i quali la camicie nera Rodi Romani di Abbadia San Salvatore, i reparti provvedevano al rastrellamento del villaggio di Kositina e ne incendiavano per rappresaglia le case. Nel corso dell'operazione, protrattasi anche durante il giorno successivo, venivano uccisi quindici ribelli, otto dei quali passati per le armi dopo essere stati catturati presso il villaggio di Bogomolje; il 23 luglio l'operazione, con il supporto di due batterie di artiglieria risultava ancora in corso tra i villaggi di Dubci e di Skrabici.
In questo quadro giunse ai presidi dell'area di Spalato occupati dalle camicie nere la notizia del colpo di stato del 25 luglio e delle dimissioni di Benito Mussolini; i risvolti politici degli avvenimenti del Gran Consiglio esulano da questa ricerca, tuttavia appare importante sottolineare che la fine del regime fascista non implicò la contemporanea fine della M.V.S.N.
Eccetto i resoconti relativi alla divisione corazzata M nei pressi di Roma, esistono poche e frammentarie memorie sulla maggior parte degli altri reparti della Milizia, compreso il 97° battaglione; è plausibile ritenere, in base al comportamento tenuto dalle camicie nere senesi nei giorni successivi, almeno per come esso è stato descritto dalle memorie del sottotenente Aldo Parmeggiani, che tra le fila dei reparti la notizia venne accolta con rabbia e sospetto e che questi non sfociarono in aperta ribellione solo per la mancanza di direttive da parte dei comandi della Milizia. Le strutture e gli apparati del partito sembravano essersi dissolti senza alcuna resistenza, sia a livello periferico che a livello centrale; a Siena, come nella quasi totalità delle città italiane, le sedi e i comandi delle organizzazioni sembrarono deserti e quasi abbandonati. Nel ricordo di un giovane volontario, destinato a presentarsi alla sede del Comando della 97.a Legione in Piazza Umberto I per l'arruolamento la mattina del 26 luglio 1943, riecheggia il ricordo di una atmosfera irreale Nelle parole di Pietro Ciabattini, destinato a presentarsi alla sede della Milizia in Piazza Umberto I per l'arruolamento come volontario la mattina del 26 luglio 1943, riecheggia il ricordo di quella inconsueta atmosfera (40).
Il governo Badoglio, insediatosi dopo l'arresto di Mussolini, si preoccupò immediatamente di porre la Milizia nella condizione di non opporsi agli avvenimenti politici ed alle loro conseguenze; scartata l'ipotesi del disarmo o, peggio, dello scioglimento dei reparti nel timore di una possibile insubordinazione, il nuovo esecutivo approfittò dell'iniziale sbandamento che aveva paralizzato tutte le organizzazioni fasciste e la stessa M.V.S.N. per imbrigliarne i reparti mediante il trasferimento organico all'interno delle forze armate.
Espressione armata del Fascismo, proiezione del regime e concretizzazione della figura della figura del soldato politico, la M.V.S.N. aveva fallito militarmente; non per la mancanza di abne-gazione e di spirito combattivo da parte dei suoi legionari, capaci di slancio ed episodi di eroismo in Africa e nei Balcani, ma per la manifesta irrealizzazione del sogno di rappresentare una entità autonoma rispetto all’esercito. Comandanti espressione di una limpida e ferrea ideologia politica ma impreparati ad una adeguata conduzione tattica, un addestramento insufficiente, equipaggia-mento largamente incompleto ed un utilizzo spesso in posizione di totale subalternità rispetto alle unità dell’esercito, avevano decreta-to il fallimento nella sua dimensione militare. Ed analogo fallimento era avvenuto come guardia armata della Rivoluzione e come esercito politico, dal momento che le sue istituzioni ed i suoi comandi si dissolsero all’indomani del 25 luglio, incapaci di reagire ad un colpo di stato che aveva esautorato Mussolini; non già i reparti impiegati al fronte, dislocati in regioni lontane, logorati da tre anni di guerra antipartigiana ed organicamente immersi nelle unità dell’esercito, ma i comandi territoriali che rimasero passivamente spettatori degli avvenimenti a Siena e in provincia.
A Siena militi della coorte complementi e del Comando Legione ricevettero l'ordine di sostituire sulle uniformi i fasci con la stellette e di indossare il grigio-verde dell'esercito al posto della camicia nera, ma soprattutto si procedette al loro inquadramento nella fila delle forze armate; nel pomeriggio di giovedì 29 luglio, nel piazzale della caserma Lamarmora, i reparti della 97.a Legione, inseriti organicamente entro le unità dell'esercito, prestavano giuramento.