Il Telegrafo del 17 ottobre 1935
Ad oltre 2000 m tra la primavera eterna dell'altopiano eritreo (II parte)

( II )


Eritrea, settembre
Giorni fa, ci recammo a far visita al villaggio indigeno situato nell'amba di Gurà, nel luogo stesso che nel 1868 fu teatro del combattimento tra le forze abissine dell'Imperatore Teodoro e quelle egiziane, che provenienti dal Sudan avevano invaso l'altopiano eritreo.
Eravamo una diecina, tra i quali il solito amico di Buonconvento, molto prezioso perchè a conoscenza della lingua degli indigeni, appresa durante la sua permanenza in Libia, dai nostri ascari eritrei.
Più che il desiderio di visitare il villaggio, simile in tutto a tanti altri già visitati, ci spingeva la speranza di poter trovare traccia della grande battaglia che vide la morte di 60.000 egiziani e 30.000 abissini. Ancora una volta fummo delusi. Le ultime traccie sono già scomparse da tempo, e della tragedia dei due popoli no rimane che un vago quanto mai impreciso ricordo nelle menti degli indigeni, poco propensi però a parlare di un passato che per non aver vissuto, non li interessa che relativamente.
Fummo ricevuti dal sacerdote copto, un giovane prete educato, gentile ed intelligente, che incontrammo alle prime capanne del villaggio. L'ospite, a nostra richiesta, ci diede una infinità di informazioni riguardo gli usi, i costumi, la religione e tutto ciò che si riferiva agli abitanti del villaggio, posto sotto la sua tutela spirituale. Informazioni delle quali ho fatto tesoro e che mi saranno di ottimo ausilio, quando, tra breve, descriverò ai lettori del "Telegrafo" le mie impressioni particolari su quanto la Colonia Eritrea ha e mostra di veramente africano, di puramente e schiettamente orientale.
Dopo un colloquio prolungatosi per più di un'ora, il giovane sacerdote, chiamato altrove dai doveri del suo ministero, ci affidò ad un vecchio indigeno, che ci fece da guida attraverso il villaggio. Da guida e potrei aggiungere da cicerone, giacchè egli, in un italiano perfetto, completò le preziose informazioni dateci dal sacerdote, e ci disse tuto quanto sapeva - e non era poco - delle sue genti e di quelle di altri villaggi circostanti.
La visita si protrasse per più di un'ora, dato che ogni capanna od ogni tucul avevano qualcosa di particolare che serviva a richiamare la nostra attenzione e a risvegliare in noi la curiosità, prontamente soddisfatta dall'impeccabile guida. Ci decidemmo a tornare all'accampamento che già annottava. Ma il vecchio indigeno non volle lasciarci partire senza averci offerto prima una tazza di the. Fu giocoforza accettare l'offerta e la conseguente ospitalità in un tucul, più oscuro e più misterioso degli altri.
Entrammo dalla stretta e bassa apertura, spostando la stuoia di canne e chinando la testa. In dieci quanti eravamo, occupammo quasi completamente lo spazio limitato che componeva tutta l'abitazione del nostro ospite.
Il vecchio indigeno, entrato per primo, si affaccendava intorno ad un primitivo fornello, mentre noi, in piedi e silenziosi, attendevamo che la calda bevanda fosse pronta, per uscire da quel luogo angusto e un tantino pauroso. La notte africana era già scesa con tutta la sua rapidità e le ombre della sera, rotte appena dalla brace ardente del fornello, incombevano su noi, cagionandoci un senso di timore, per non dire di paura.
Forse la suggestione, forse l'effetto di sapersi in mezzo a gente sconosciuta e, se si vuole, un tantino selvaggia, il fatto si è che tutti, quasi automaticamente, ci stringevamo l'uno all'altro, come per preparare a difendere i nostri corpi dall'oscura minaccia che sembrava gravare su noi.
Qualcuno pensò di andarsene, altri fecero il proponimento di non bere quel the, che (ormai il cervello non ragionava più) poteva essere anche avvelenato.
Finalmente il vecchio indigeno ruppe il silenzio: Se arbù vuole luce, la c'è candela.
Ci precipitammo, dico ci precipitammo verso l'angolo indicatoci dall'indice nero e ai nostri occhi smisuratamente lungo, dell'ospite nostro. La candela fu prontamente accesa, ed il tenue chiarore della fiammella rischiarò la capanna, dando forma alle cose circostanti e mostrando ai nostri occhi quello che non avremmo mai supposto vedere nella capanna di un indigeno, a 16° dall'Equatore.
Appesa alla parete prospiciente l'ingresso al tucul, racchiusa in una rudimentale cornice sprovvista di vetro, un brevetto: "In nome di S.M. Vittorio Emanuele III, l'ascaro Matteo Macum è decorato di medaglia d'argento al valor militare..." E più sotto la motivazione: una pagina di eroismo e d'amor patrio.
Tutti, sorpresi ed ammirati, non potevamo distogliere gli sguardi da quel documento sbiadito, simbolo dell'eroismo dei nostri ascari. Ancora una volta il vecchio indigeno ruppe il silenzio:
- Quella è una medaglia guadagnata in Tripolitania nel 1912. Medaglia vera però è qui.
Apertasi la tunica bianca, ci mostrò il petto nudo, sul quale, scendente dal collo, all'estremità di un cordone azzurro, pendeva vicino ad un crocifisso d'oro, il dischetto d'argento con l'effige del Re Soldato.
- Io combattuto molto, riprese il vecchio, e molto contento servire Italia. Mio figlio morto a Cufra. Ascari come me, ma morto.
Si tacque. Ma nei suoi occhi leggemmo una commozione sì intensa, che noi lo pregammo di dirci tutto, di narrarci tutto di lui e di suo figlio.
L'ascaro ci versò il the; e mentre noi sorbivamo la bevanda, che non c'era mai sembrata tanto gradita, ci disse la storia della sua famiglia, la sua, quella di suo figlio e quelle di tutti gli ascari, che per una patria lontana, lottano con fede, si fregiano il petto d'azzurro e muoiono da eroi.
Ci disse poi dei suoi due ultimi figli, arruolatisi recentemente insieme a tutti gli uomini validi del villaggio, circa 400, ed oggi ai confini con il loro battaglione, per la difesa dei diritti e del buon nome dell'Italia.
Rimanemmo a lungo nella capanna, non più oscura, non più paurosa, ma tutta illuminata da una fiamma di amor patrio. Uscimmo a tarda ora. Dopo aver salutato ed abbracciato l'ospite nostro, prendemmo la via del ritorno.
I timori insulsi e le paure varie erano scomparsi. Tranquilli e sereni, traversammo senza guida tutto il villaggio. La luna sorta da poco ci illuminava il cammino. Ed i raggi dell'astro notturno avevano, nella notte nera, gli stessi riflessi argentei che aveva poco prima la medaglia al valore sulla nera epidermide dell'ascaro.
E mentre i primi ci indicavano la strada da percorrere per tornare all'accampamento, i secondi ci insegnavano la via della gloria.

Dino Corsi