Il Telegrafo del 12 luglio 1936
Campane dell'Asmara

Asmara, giugno
Dopo tre giorni di viaggio, fatto con i svariati mezzi di trasporto, che vanno dalla elegante e aerodinamica "berlina", alla ballerina autocarretta, tramite i camioncini "Ardito" ed i potenti "34", si giunge finalmente all'Asmara, alla città dei sogni e di tutti i desideri.
Sosta al punto di tappa, verifica dei documenti, della "bassa", dei fogli di via e dei permessi. Occhi che scrutano, bocche che interrogano ed infine il sacramentale "potete andare" ci lancia sul vialone alberato, che dalla periferia porta al cuore della capitale eritrea.
Annotta. I globi elettrici fanno luccicare l'asfalto della strada; i fari delle macchine, che si rincorrono veloci, accecano, confondono e fanno barcollare lo "scarpone" che viene da lontano centinaia e centinaia di chilometri e, come in un sogno, si trova trasportato in una città civile, lui che da un anno vive tra gente selvaggia e primitiva, a stretto contatto con la natura più ostile.
Ma laggiù tra un luccichio di mille luci - chè l'Asmara si è già ammantata della sua veste notturna - si profilano le sagome di tanti palazzi, si innalza maestosa la torre della cattedrale, si spande e si diffonde lontano il rumore della civiltà e della vita.
Laggiù, in fondo al vialone che sembra interminabile e chiuso dalle gigantesche piante che lo fiancheggiano, è la Città, la città europea, la città italiana, cone le sue donne bianche, i suoi negozi, i suoi cinematografi, le sue sale di divertimento...
Procede a stento lo "scarpone" sotto il peso dello zaino e sopra il soffice asfalto, che sembra voglia serrare i piedi in una tiepida morsa, barcolla, abbagliato, ad ogni lampeggiar di luce, ma va avanti nella notte che cala, va verso la città che ha ognato per tanti mesi, verso una vita nuova, verso il divertimento e il piacere...

Eccolo giunto, alfine! Si guarda intorno, osserva i palazzi, le ridenti villette e le strade luccicanti dai cento negozi.
Osserva l'andirivieni della gente: ufficiali di tutte le armi, "borghesi" in candidi abiti, signore e signorine elegantissime, belle, tutte belle, sono o sembrano le donne bianche dell'Asmara.
Ammirato, il combattente che viene dall'interno, si sofferma al centro di una strada. Nulla può smuoverlo, nulla può porre fine alla sua estasi.
Passa la folla e lo "scarpone" guarda. Guarda, osserva, ammira. Ad ogni passar di donna è un fremito...Da quanto tempo non vede egli le donne bianche? Da quanti mesi?...Ma ora è lì, all'Asmara, e le belle signore gli sono vicine. Lo sfiorano, quasi lo toccano. Soltanto - se ne accorge dopo un buon quarto d'ora - esse sembrano non curarsi di lui; le sue occhiate di fuoco rimangono senza risposta, i suoi sospiri non sonoraccolti da nessuna delle tante belle che passano. Perchè? Perchè? Si domanda. Gira gli sguardi intorno, come a cercare una risposta. E la risposta gli viene immediata da una "ronda" che passa vigilante:
- Ehi, voi militare, cosa fate?
- Io...,balbetta confuso, io ho il permesso.
- Va bene, dice il sergente, dopo aver esaminato il foglietto firmato e bollato, ma non è detto, che perchè avete il permesso, ve ne stiate qui, in centro, in codeste condizioni.
- In quali condizioni, scusi?
- Stracciato, lacero, con la barba di due settimane e carico al pari di un mulo...Via! Circolate!
La "ronda" si allontana. Egli pure si muove, si porta al lato di una strada. La vetrina di un negozio gli rimanda la sua immagine. E si vede così com'è, come ha detto il sergente: i pantaloni sbadigliano ai ginocchi, l'unico bottone della giacchetta penzola per un filo ed esprime il desiderio di raggiungere i compagni, la barba - ma come non se n'è avveduto prima? - ha invaso tutta la faccia, come gremigna su di un terreno incolto, il casco, rincalzato e lacero agli orli della tesa, sembra un "panama" fuori uso. Realmente, si rende ridicolo, tanto ridicolo!
Lassù in linea no, non lo era ridicolo, perchè i suoi compagni erano tutti come lui, poco meglio o poco peggio, ma in città, all'Asmara, le cose cambiano.
Tra tante uniformi luccicanti, tra le molteplici eleganze maschili e femminili, egli fa davvero una figura meschina.
E si sente a disagio, il soldatino, lì, su quella strada troppo illuminata, tra quelle donne troppo belle, tra quei negozi troppo lussuosi. Comprende, un pò tardi (ha lottato tanto per ottenere la breve licenza e recarsi all'Asmara a respirare un pò d'aria...casalinga!) che quello non è il suo posto e desidera la sua tenda, la sua compagnia, i suoi camerati. Vorrebbe poter essere ancora laggiù, nella torrida piana di Cobbò, ove la vita è dura, si, ma tanto bella, perchè semplice, perchè umile.
La strada, la folla, le luci, lo apprimono ora. Vorrebbe fuggire, nascondersi...Ma dove?...Ecco, là, in quel caffè. Un tavolino appartato, un giornale, una bibita, una sigaretta: mezz'ora di calma riposante. Due passi ed è sulla soglia dell'esercizio.
Dieci specchi, dieci spine nel cuore, gli fanno intravedere una figura goffa, lacera, china sotto il peso di uno zaino di dimensioni spropositate e ridicolo, tanto ridicolo...
E nell'interno del bar, tante persone eleganti, sembrano sorridere ironicamente all'apparizione del lavero fante.
Un nodo lo prende alla gola. Piangerebbe. Ma non piange. Perchè "lui" non ha mai pianto. Fugge invece. Volge le spalle agli sguardi ed alle risatine ironiche, agli specchi, ai caffè e fugge verso quella stradicciola oscura, che si diparte da un lato della grande strada.
Le tenebre del vicolo lo accolgono nella loro solitudine. Lo "scarpone" respira ora. Nell'ombra si stente più forte, più sicuro di sè. Sorride amaramente della sua delusione e pensa seriamente al da farsi. Ripartire? Si, ma dove? Sino alla mezzanotte non parte l'autocolonna e sono appena le otto di sera. Come trascorrere le lunghe quattro ore? Dove andare? Cosa fare?
Improvvisamente, un suono dolce, soave, rompe il silenzio del vicolo oscure. Sono campane che suonano. Dapprima egli è sorpreso. Non crede ai suoi orecchi. Poi deve convincersi: i bronzi sacri delle cattedrale fanno echeggiare il loro suono di pace.
Ascolta, trattenendo il respiro. Finalmente prova in se qualcosa di...casalingo. E' commosso, tanto commosso che una lacrima, una cosina così come la perla, gli scende giù per una guancia.
Continua il dindolare delle campane ed echeggiano nell'aria i suoni di un dolce richiamo.
Lentamente lo "scarpone" si muove e si avvia. Per un istante le luci del centro lo abbagliano, ma egli procede sicuro e franco. Anche la sua immagine, riflessa dalle vetrine, gli sembra meno goffa...
Lo scampanio lo guida e giunge alla cattedrale. Confusa, indistinta, appare ai suoi occhi la mole rossastra del tempio cristiano.
Ma il suo suono giunge ai suoi orecchi sempre più distinto, sempre più invitante. Sale in fretta la scalinata, sorpassa una porticina che gli si schiude davanti ed entra nell'asilo di pace.
Il marmoreo impiantito risuona sotto il colpestio degli scarponi ferrati. Si sofferma per non far rumore; una rustica panca di legno lo invita. Si siede e rimane silenzioso a godersi la pace e la quiete, che dominano la chiesa.
Le campane, dall'alto del campanile, continuano a cantare la loro festosa canzone. Egli tace e, commosso più che mai, ascolta.
Un fraticello, bianco e silenzioso come la neve, si avvicina al soldato.
- Salve fratello!
- salute padrino!
- Venite di lontano?
- Si...tanto lontano.
- Ma voi piangete, Dio santo! Cosa avete, cosa vi accade fratello mio?
- Nulla, padrino. E' la commozione, la gioia...Sono le vostre campane che mi fanno piangere lacrime di contento...Perchè le vostre campane, le campane dell'Asmara sono come quelle del mio paese!
In silenzio, com'è venuto, il fraticello si allontana e lascia il soldatino alla sua commozione ed alla sua gioia casalinga.
E la campane continuano lentamente a fare din-don...


Dino Corsi