Il Telegrafo del 31 luglio 1942
Impressioni sulla Russia del legionario Dino Corsi

Nella Russia occupata, la ferrovia, questo vitale fattore di comunicazione, funziona sino a laddove - e sono centinaia e centinaia di chilometri in lungo e in largo - l'opera fattiva dei soldati dell'Asse ha riparato alla diferenza di scartamento e reso possibile l'affluire dei convogli provenienti dalla nuova Europa. Con ritmo celere, compiendo prodigi di realizzazione tecnica e pratica, le maestranze militarizzate preposte alla sistemazione dei binari ferroviari, seguono l'avanzata delle truppe a far sì che i treni e le viadotte giungano oltre ogni pensabile limite; a poche giornate, o centinaia di chilometri che dir si voglia, dalla sempre più in avanti linea del fuoco.
E la linea del fuoco, che irresistibilmente si allontana dalle origini per portarsi sempre più vicina alla mèta finale, deve esser raggiunta, per non dire inseguita, in autocarro, dopodichè l'ammirevole fatica dei convogli ferroviari ha raggiunto l'estremo limite.
Oltre questo limite, il nostro raggruppamento si è mosso per portarsi nella zona di azione; oltre l'ultimo metro di binario già...europeizzato, le macchine nostre si son messe in marcia per portare i battaglioni «M» sul fronte della guerra antiboslcevica.
E per raggiungere questo fronte, per portarci a contatto con i camerati già lanciati verso la vittoria, abbiamo dovuto percorrere quella specie di pista africana che è - o meglio, che era nelle esaltatrici definizioni dei credenti in un infernale paradiso - la grande e moderna autostrada Mosca - Karkov - Stalino ecc.
Lungo questo simulacro di arteria, per giorni intieri in mezzo a nuvole di polvere, per ore con davanti agli occhi tutti i segni più crudi della guerra, si è viaggiato in ordinata colonna e dato ancora una volta la dimostrazione dell'italica disciplina, che nulla e da nessuno può ormai aver da imparare.
Le impressioni di questo nostro viaggio attraverso le rettrovie - viaggio che non è stata una passeggiata, ma bensì una vera e propria azione tattica - sono molte e svariate. Alcune, le più salienti, le più vive nella nostra memoria e le più facilmente comprensibili per chi vive in Patria, le riassumiamo nelle brevi note che seguono.
Profughi. Scrivendo questo aggettivo - profughi - la memoria fa una rapida quanto lunga corsa indietro nel tempo ed i nostri occhi rivedono le genti del Veneto Italico, migranti per la Penisola nei giorni duri quanto gloriosi della Guerra che fu grande, perchè precorritrice dell'attuale conflitto mondiale destinato a definitivamente dire la grande parola di giustizia e libertà per tutti i popoli.
Ma se la nostra mente torna alle visioni dell'infanzia, i nostri sensi ed i nostri cuori ci dicono che qualcosa, molto anzi, di diverso c'è tra la migrazione del 1917 ai confini d'Italia e questa del 1942 nell'interno della Russia. Allora erano masse conscie e consapevoli che, lasciando la casa, i beni, il paese natio, sapevano di andare incontro a fratelli, a figli di una setssa madre, una madre grande quanto mai ve ne furono: l'Italia. Ora invece, in questa Russia, manicomio di genti, le popolazioni migrano sotto la più terribile delle sensazioni: la paura. Causa della guerra in sè stessa, paura dei commissari che la fan da carcerieri di durissimi ergastoli, paura, infine, di quell'imponderabile che il rombar del cannone sempre crea.
E si vedono, lungo i sentieri polverosi, tra le steppe, in mezzo ai boschi, ovunque vi sia possibilità di passaggio e di transito, essere umani vestiti di stracci, trasudanti sporcizia e miseria, camminare, camminare e andare avanti; avanti, così, senza mèta e senza sapere che avanti loro c'è solo ciò che il Regime da essi voluto, o comunque sopportato, ha saputo creare: il nulla, la miseria. V'è anche il nuovo, l'opera dell'Asse. Ma occorrerà del tempo prima che questi miseri, dagli occhi ottenebrati da ventennale ombra rossa, possano rialzare le palpebre e mirare la luminosità di un sole che non è quello dell'avvenire, ma di un radioso presente.
E vanno, carovane zingaresche, tra la polvere di quelle strade che non furono mai costruite; vanno, ombre livide d'un regime di spettri, a ritroso lungo i sentieri della nostra vittoriosa avanzata. Lentamente, spingendo a forza di braccia le cariole di masserizie, gli avanzi del regime staliniano sfuggono l'ipotetico paradiso. Donne, vecchie, fanciulli, pur ancora fermi nelle loro assurde teorie, pur ancora credenti nel verbo di ogni negazione, trainano il fardello degli errori e vanno, sia pur dolorosamente, verso la luce. Camminando, faticando, sudando e sfuggendo il terreno ove anche, e particolarmente per loro si combatte e si muore, questi profughi russi non immaginano di avvicinarsi alla redenzione.
Fanno pena. Ed i cuori sensibili fremono alla visione di tanta miseria. Ed il fremito è quello delle divise italiane. Di quelle divise , che in guerra come in pace, non sanno e non possono dimenticare la gentilezza della nostra razza e quel sentimento umano che caratterizza tutti coloro che hanno avuto la fortuna di nascere nel più bel Paese del Mondo. Perchè noi - noi italiani - sappiamo piangere di fronte alla altrui miserie e dolori, come sappiamo sempre rider delle nostre pene, sacrifici e disavventure. E questa è la nostra forza più grande.

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A...X...l'autocolonna si è fermata per una delle previste soste necessarie ai rifornimenti utili agli uomini e alle macchine.
...X...è una città che ha veduta e subita recentemente la guerra.. Molte case, attraverso le vuote occhiaie delle finestre denza vetri ed intelaiatura ed i tetti scoperchiati, le faccie stesse degli abitanti, ci dicono la violenza della bufera che or non è molto imperversò in queste zone. Intatta una costruzioni in stile orientale: la Chiesa.
Il campanile, candido nella sua calcarea rivestitura, si eleva come un minareto sulle moresche cupole dell'edificio. Ma la cella campanaria è vuota; e fa pena vedere quell'asilo di dolci rintocchi mancare del caro bronzo; e maggiormente pena è data ai nostri sensi dalla visione dell'interno della chiesa, ridotta ad una specie di silos granario.
Volgendo intorno gli sguardi ansiosi di scoprire il nuovo, ci colpiscono due segni tracciati sulla parete posteriore del tempio, laddove un giorno sorgeva l'altare maggiore: due freghi fatti, ci sembra, col carbone: una Croce.
Ieri passarono di qui i soldati dell'Asse, passarono i nostri soldati. Fu un fante italiano, fu uno di quei bersaglieri motociclisti che aprono la via a tutte le avanzate, fu un'ardita Camicia nera, fu un silente artigliere, a tracciare quei due segni simboleggianti l'eternità di Roma? O fu uno dei nativi - un vecchio mugich - ad esprimere attraverso il simbolico grafico tutta la sua gioia per il ritorno della luce su paesi ottenebrati dall'ombra comunista? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che attrvaerso quei segni vedemmo e sentimmo l'anima di un popolo che forse si potrà ancora salvare dal precipizio in cui e verso cui fu spinta dalla più incomprensibile cecità.
Sempre ad...X...nella piazza centrale della città, i battaglioni in quadrato assisterono alla Messa al Campo. Sullo sfondo della piazza, il tricolore italiano - trittico simbolico - dava tono al nostro modesto altare. Mentre il cappellano celebrava il Sacro Rito, noi, frammischiati ai camerati tedeschi, rumeni e ungheresi che si assiepavano ai margini dello schieramento legionario, assistevano i pochi russi che la funzione religiosa aveva richiamato lì appresso.
Alcune ragazze e giovinetti guardavano all'Altare come ad una cosa incomprensibile e mormoravano quasi a dir la loro certamente non rispettosa considerazione per la Sacre cerimonia. Ma un vecchio - candidi capelli e barba fluente sul petto rivestito del tradizionale "sabik" - ci si fece dappresso e, stringendoci un braccio in maniera inconfondibile - domandò, accennando all'Altare: "Cristus?". "Da" (si) rispondemmo. Allora il vegliardo si guardò intorno con occhi pieni di sospetto ma anche di speranza.
Era l'attimo celestiale dell'Elevazione. I battaglioni, allo squillo di tromba, avevano assunto la posizione più rigida, il picchetto di onore tagliava l'aria colle affilate lame dei pugnali, gettate in avanti sul "presentat'arm", il sacerdote officiante elevava al cielo le Sacre Particole...ed il vecchio russo si guardà ancora dappresso.Vide noi, tanti nostri camerati, ed un gruppo di donne anziane che, timorose, sembrvano attendere un cenno per schiudere le labbra alla preghiera. Vide, il vegliardo, faccie amiche a sè intorno, e vinse ogni reticenza; si inginocchiò e pregò. Forse pianse, Anche il gruppo delle donne lo seguì nella genuflessione, nella preghiera e, sono convinto, nel pianto di liberazione.
Vivemmo gli istanti di questi miseri russi tornati finalmente alla luce e, quando lo squillo di tromba ci richiamò alla realtà, non ci meravigliammo delle lacrime che ci bagnavano le guancie, Guardammo l'altare, il tricolore, poi il vecchio, le donne, e capimmo che le nostre eran lacrime di gioia.

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E cammina, cammina, come nelle vecchie fiabe, siamo finalmente giunti alla casa dell'Orco. Ormai non c'è più da temere ulteriori spostamenti, solo il prossimo che sarà quello dell'azione.
La tana dell'Orco è per noi il fronte. Ci siamo, grazie a Dio! Siamo arrivato, proprio dove volevamo e desideravamo.
Siamo nel settore del fronte italiano. Qui, dopo due settimane di viaggio in terra straniera, abbiam ritrovato la Patria, l'Italia. Qui tutto è nostro. Nostro il dovere, nostro il sacrificio, nostra la sofferenza, nostro particolarmente il diritto di combattere e di vincere.
Riposiamo, in attesa dell'alba di domani; riposiamo già pregustando la gioia dell'azione. E sul nostro riposo, come madre amorosa, evglia la bandiera tricolore che garrisce superba nel cielo e protegge i soldati d'Italia.
Vicine e lontane risuonano voci nell'idioma più bello; ed echeggiano, nella canzone della giovinezza, i cori dei legionari che elevano al cielo gli inni di vittoria.

Dino Corsi