Il Telegrafo del 29 settembre 1942
Azione squadrista dei Battaglioni "M" (I^ parte)

Fronte Russo, settembre
Tre settimane sono trascorse dal giorno in cui il nostro Generale, dall'alto di un autocarro ci disse la sua certezza nel successo ed espresse ai legionari la sua incondizionata fiducia. Tre settimane ricche di eventi e sature di emotività. Oltre venti giorni vissuti pericolosamente ed impiegati nella maniera migliore: combattendo.
All'estremità nord della grande ansa del Don i russi, con spiegamento di forze, tali da far comprendere la loro ambiziose mire di rivincita e riconquista di centri importanti dal lato strategico, attaccarono le nostre linee saldamente tenute - nel settore a cui ci riferiamo - da una Divisione di Fanteria.
Favoriti dal possesso di una testa di ponte, creata in una piccola ansa dominata da una quota in sua possesso, e dall'appiglio tattico offerto da un paese sito nei pressi del Don, il nemico, superiore di numero in proporzione di almeno cinque a uno, ha ripetutamente tentato lo sfondamento dello scacchiere italiano.
Per giorni e settimane, mentre i fanti di due vecchi, gloriosi reggimenti, abbarbicati al terreno, fatto di ogni cumulo di terra uno scudo, di ogni buca scavata col piccozzo una trincea e di ogni bosco un baluardo, respingevano attacchi su attacchi e nel tempo che l'artiglieria divisionale batteva senza posa i centri di rifornimento e le batterie avversarie, i battaglioni "M", costituenti la riserva volante del Corpo d'Armata con compiti speciali d'assalto, intervenivano ovunque più forte si manifestasse la pressione dei bolscevichi.
Di giorno e di notte, dalle loro improvvisate basi di pronto intervento, i legionari, sempre sul chi vive, balzavano al primo segnle, correvano agli autocarri e partivano verso la linea di fuoco. Dormire si dormiva dove, come e quando si poteva. La stanchezza fisica sembrava a tutti e per tutti cosa indegna di considerazione. Di stanchezza morale neppure da parlarne quando si tratta di uomini che hanno fatto del combattere la loro prima ragione di vita.
Trascorrevano giorni su giorni. E sempre e sempre più il nemico ripeteva i suoi attacchi. Masse di cadaveri si accumulavano davanti alle postazioni delle armi automatiche, posizioni dai rossi momentaneamente abbandonate venivano sempre riprese in furiosi attacchi alla baionetta. I giovanissimi fanti, baldi ragazzi delle ultime leve, giunti in linea dopo aver percorso oltre 1000 chilometri a piedi, nuovi alla guerra ed al pericolo, si dimostravano sempre degni delle fulgidi tradizioni della fanteria.
Il "Savoia!" di tutti gli ardimenti e l'"A noi!" legionario si confondevano nello spasimo della resistenza, nell'ebbrezza del contrattacco.
Ma occorreva finirla una buona volta. Scossi, malgrado le sanguinose perdite, non intendevano desistere dal loro tentativo. Volevano passare. E favoriti dal possesso del villaggio rivierasco immettevano ad ogni sorgere di sole nuove masse di uomini in sostituzione di quelli falciati dalla mitraglia, dilaniati dalle bombe e disfatti dalle artiglierie. Le linee italiane non cedevano e mai avrebbero ceduto. Purtuttavia si imponeva una decisione radicale: l'occupazione del paese caposaldo e punto di partenza degli attacchi avversari. E la decisione fu presa dagli Alti Comandi: uno dei due gruppi di battaglioni "M" avrebbe contrattaccato, volto in fuga i reggimenti rossi, occupato il paese e definita a nostro vantaggio la questione in sospeso.
Nessun dubbio possibile sull'esito dell'azione. Si sapeva che i legionari "M" avrebbero battuto il nemico ed occupato il villaggio. Sia pure non tutti, ma mille, o cinquecento, o cento, od un solo plotone di superstiti sarebbe in ogni modo giunto al paese per issare la bandiera d'Italia e la Fiamma della Rivoluzione fascista ala sommità del più alto edificio.
Così fu. Quasi integri nei ranghi, che pochi furono i caduti ed i feriti rispetto al risultato conseguito, i Battaglioni "M" contrattaccarono, volsero in fuga i reggimenti rossi, occuparono il villaggio e definirono a nostro favore la situazione in sospeso.
Da appena due giorni eravamo rientrati alla base, reduci dalla prima linea. La permanenza al campo aveva avuta la durata necessaria e consentiva agli uomini un paio di notti di riposo, la consumazione regolare di alcuni ranci caldi, la necessaria pulizia dei corpi e della biancheria, la lettura della posta, l'inizio di notizie a casa e tutte quelle altre faccenduole che sempre si rendono utili a termine di un più o meno lungo periodo di movimento.
Gli accampamenti e gli accantonamenti erano dominati dal silenzio della siesta pomeridiana quando il battito di un motore venne a far battere più violentemente i cuori. Il solito motociclista porta-ordini, latore di importanti novità, giunse a mettere in subbuglio il campo.
Immediatamente i legionari furono in piedi coll'intuizione tutta particolare dei vecchi combattenti, ognuno sentì l'approssimarsi del momento atteso. E prima ancora che ordini precisi venissero impartiti, più di uno si affaccendò intorno alle proprie cose, per riordinarle e prepararle alla eventuale nuova partenza.
L'ufficiale di guardia, pochi minuti dopo il giungere del motociclista, portò la conferma delle previsioni: levare il campo, prender posto sulle macchine. Tutto deve essere pronto in un quarto d'ora.
Esattamente dopo quindici minuti la colonna si mosse a rifare la strada che già conosceva l'incedere squadrista degli autocarri legionari.
Le nere fiamme di combattimento al vento, gli uomini in piedi come a far salire più in alto il loro canto di battaglia, le macchine superarono le posizioni di schieramento delle artiglierie e raggiunsero la zona estrema di sicurezza, oltre il di cui limite il nemico, porta la sua micidiale offesa approfittando di vasti territori non defilati al tiro dei mortai e delle mitraglie pesanti.
Si attese la notte. E col favore delle tenebre furono percorsi i pochi chilometri che separavano dalla linea avanzata. Le macchine, con gli zaini o con quant'altro non si profilava strettamente necessario, rimasero nella zona non battuta. Soltanto gli uomini, col fardello sempre leggero delle armi e col loro destino di gloria, si portarono avanti.
Il fronte era insolitamente tranquillo la notte dall'11 al 12 settembre. Soltanto le opposte artiglierie di grosso calibro saggiavano le forze avversarie. Di tanto in tanto il sibilo delle granate in partenza giungeva agli orecchi come una musica allegra, rotta sovente dal fragoroso dirompere dei proietti.
I fanti salutavano con affettuoso calore il giungere dei battaglioni. Questi ragazzi, che guardano ai legionari come a dei fratelli maggiori, salutano ogni nostro ritorno in linea con dimostrazioni spontanee che dicono chiaramente tutta la loro stima ed ammirazione per i "diavoli neri". Questi oscuri eroi della trincea, questi giovanotti che sanno combattere e morire col sorriso sulle labbra, che in cento contro cinquecento respingono da quasi un mese le orde bolsceviche e non di rado scattano all'assalto alla baionetta, questi modesti quanto superbi soldati d'Italia, come non sanno inorgoglirsi delle loro gesta addirittura epiche, si abbandonano con quasi infantile entusiasmo all'ammirazione per le altrui imprese.

Dino Corsi