Il Telegrafo del 23 luglio 1942
Con un battaglione "M" verso il fronte russo (II parte)

Pubblichiamo la seconda parte delle impressioni di viaggio attraverso l'Europa, tratte da una corrispondenza inviataci dal nostro collaboratore Dino Corsi, operante con un Battaglione "M" sul fronte russo.

La nostra tradotta sostò circa un'ora nella stazione ferroviaria che serve una cittadina agricola situata quasi al centro del territorio già invaso dai russi. Fu quella la prima sosta tra uomini che avevano conosciuto il bolscevismo. Precedentemente, nel rapido passaggio attraverso centri abitati, eravamo stati ripetutamente segno a manifestazioni di simpatia, ma qui, fermi alla stazione, avemmo la prova di quanto e come questa parte della Polonia guardi alle Potenze dell'Asse.
Il recinto ferroviario fu invaso da una folla di donne e bambini. Cordialmente, con spontaneo sorriso sulle labbra, ci furono offerti fiori, uova e latte. Contraccambiammo con sigarette, cioccolata e piccoli ninnoli. Si creò, tra i legionari ed il popolo, una corrente di simpatia reciproca. Una fisarmonica, agita abilmente da dita italiane, attaccò una canzonetta: spontaneamente, così come fosse la cosa più naturale del mondo, una coppia, poi due, dieci, cento iniziarono la danza sul piano scaricatore della stazione.
E si videro volteggiare in giri di valzer gli arditi fez neri dei legionari e le chiome dorate delle donne polacche. Una di queste donne - giovane insegnante del luogo, assai pratica della lingua italiana, ci disse: "Vedete il nostro popolo? Ha pianto tanto : per la guerra, per gli errori dei suoi capi, per l'invasione russa. Oggi è tornato a vivere. E sa di vivere. Prima nessuno sperava più; ma dopo il periodo dell'occupazione comunista, quando i tedeschi - che una volta erano considerati nemici - vennero ao tornarono, gli occhi si aprirono e la speranza tornò. Oggi oguno di noi sa da quale parte è la verità e tutti crediamo nei vostri grandi capi, che Dio li assista e li conservi a lungo".
Quando la tradotta si mosse, quando il fischio della locomotiva pose termine a suoni e a canti, la voce della nostra maestrina si levò sul clamore del cordiale arrivederci a gridare: "Vincete! Vincete! Vincete per tutti noi!" E quella non era più la voce di una donna, era la voce della Polonia, era la voce dell'Europa tutta ad implorare una vittoria che la salvi - e la salverà - dalla distruzione e dalla schivitù.

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Finalmente in Russia! Dir Russia è una parola, trovarcisi pare un sogno.
Distesi sul non eccessivamente soffice impiantito del vagone dopo sette giorni e sette notti di viaggio (dormire in terra con, magari, un elmetto per capezzale, le scarpe di un compagno sulla faccia è la cosa più semplice di questo mondo) stavamo appunto sognando, quando un camerata ci scosse, urlando: "Russia! Siamo in Russia!" Scattiamo in piedi e corriamo allo sportello (diciamo corriamo così per dire: il termine giusto è saltiamo, giacchè con trenta uomini distesi nel ristretto spazio di un vagone, con più di trenta zaini, altrettante borse tattiche, armamenti e poi casse munizioni, viveri, marmitte, ecc c'è poco da correre).
Albeggiava. Erano le 3 del mattino, ora legale. Nulla di nuovo, riguardo al panorama. Continuava la steppa della quale avevamo già da ventiquattr'ore iniziata la traversata. Nulla di nuovo, eppure ci sembrava che qualcosa di diverso ci fosse. Cosa? Forse quel villaggio senza campanile? Non certo quella casa dal tetto scoperchiato: scherzi della guerra (del vento, si diceva in tradotta). Forse il sentiero polveroso che fiancheggia i binari? Non certo i rottami di carro armato sparsi sul sentiero stesso, scherzi...del vento. Ci domandavamo insistentemente cosa mai poteva esserci di strano e di nuovo in ciò che vedevamo, quando il camerata che ci aveva tratti dal sonno tornò a mormorare "Siamo in Russia". Oh, finalmente! Ecco la novità! Siamo in Russia! E vediamola un pò questo paradiso colla "p" minuscola.
Per più giorni abbiamo viaggiato attravers pianure immense, folte boscaglie, interminabili terreni paludosi. Molte e prolungate le soste nelle stazioni. Abbiamo anche visitato villaggi e città. Una sola conclusione abbiamo fatta: miseria. Miseria materiale e morale.
Tutto quanto si è letto riguardo alla Russia bolscevica è tragicamente vero. Il comunismo ha fatto del popolo un armento senza coscienza, della terra uno sconfinato carcere, della richhezza un fattore di ambizione al dominio.
Confessiamo francamente che la nostra avversione al comunismo non era mai arrivata sino al punto di negare a questo alcune utili al popolo realizzazioni. Abbiamo dovuto ricrederci. Nulla è stato fatto. Nulla di bene e di buono almeno.
Le nostre osservazioni, naturalmente, riguardano il lato esteriore delle cose, giacchè non abbiamo avuta possibilità di valutare gli esseri umani, salvo che nella loro miseria morale dovuta alla quasi totalità di assenza di sentimenti che fan nobile l'uomo: religione e famiglia.
Il volto della Russia di oggi - ammesso pure che molte rughe siano state scavate su questo dalla guerra - è quello di una vecchia decrepita prossima alla fine. E non può non esser prossima alla fine una nazione che, alla metà del secolo ventesimo, lascia nel più completo abbandono città, paesi, borghi e villaggi. L'edilizia è primordiale: ricorda quella dell'Etiopia anteconquista. case di legno e fango impastato con sterco animale, coperte da tetti di paglia, misere baracche, messe su Dio sa come con avanzi di ogni genere, primeggiano per quantità nelle campagne, nei piccoli centri e nei sobborghi delle grandi città. Strade degne di tale nome ne abbiamo, sino ad oggi, veduta soltanto una; massicciata con acciottolato. Il restante è tutta una rete di sentieri polverosi e sconnessi che ricordano, ed hanno, in certi casi, tutto da invidiare alle piste carovaniere africane. Igiene ed ordine sono ovunque sconosciuti.
Soltanto in Ucraiana, ove uomini tenaci han saputo difendere parte delle tradizioni, si respira aria civile. Lo stesso paesaggio - un susseguirsi di ridenti colline - la vegetazione lussureggiante, l'abbondanza di prodotti, il gentile culto dei fiori e l'attaccamento alla casa e alla terra dei nativi fanno di questa regione una cosa a parte, che si estranea dal blocco nefasto dell'U.R.S.S.
Tanto diversa l'Ucraina dalle regioni che abbiamo vedute. Diverse anche perchè qua si sorride, si sa ancora sorridere alla vita e si crede nell'avvenire. Il popolo ucraino ha accolte le Armate dell'Asse quali liberatrici, ha dato prova della sua serietà e sincerità ed oggi rivive sotto i segni redentori della Croce uncinata e del Fascio Littorio.
Le genti, nei campi e nelle case, lavorano e vivono in tranquilla operosità, danno il loro contributo alla causa della Vittoria e, quindi, con ragione e merito, sono e possono atteggiare le labbra al sorriso di gioia.
Altrove, invece, non si sa più sorridere. Forse quei piccoli, che seminudi abbiam veduti affollarsi attorno a noi, non hanno mai appreso il sorris da labbra materne, in queste zone ove la guerra è passata con tutta la sua furia devastatrice, ove gli uomini, in virtù della staliniana moblitazione generale, sono scomparsi dalla vita civile, donne ebambini, col volto atteggiato alla impassibile, fatalistica indifferenza degli slavi, guardano ai conquistatori come forse ieri guardavano ai commissari ed alle guardie rosse di Mosca.
Nei cervelli di questa gente, ottenebrati da oltre vent'anni di crimonosa esperienza bolscevica, la luce è tarda a penetrare. Abituati a non ragionare, ma soltanto ad obbedire in silenzio, continuano a tacere: forse si meravigliano che nessuno li maltratti, guardano, osservano e poi si domandano il perchè di cose a loro completamente nuove. Povera gente, se si vuole; armento umano senza coscienza, ma appunto perchè armento bisognoso di una buona guida e di molta, ma molta sopportazione.
Viaggiando in mezzo alle case ed agli esseri che succintamente abbiamo descritti, siamo giunti a termine del nostro viaggio ferroviario: una grande città che recentemente teatro di lunghi e sanguinosi combattimenti. Smontati dalla tradotta, abbiamo piantate le tende nel folto della boscaglia, per stendere un pò i corpi, per prenderci alcune ore di riposo. Soltanto alcune, però. La nostra colonna motorizzata è qui, a dieci metri da noi e ci invita all'ultima tappa. Quale? Per dove? Chissà! Dove andremo? Mah...Nessuno, proprio nessuno, lo sa. Ma lo sanno forse le squadriglie di bombardieri che da un'ora e oltre si susseguono alte sulle nostre teste, lo sanno certamente quei cannoni che stamani fan sentire la loro voce e, per dir proprio la verità, lo sappiamo anche noi. Ma non possiamo dirlo...

Dino Corsi